da ItaliaOggi Marco Nobilio – Al via la riapertura del tavolo negoziale per il rinnovo del contratto di lavoro del personale della scuola. I rappresentanti dell’Aran e delle confederazioni sindacali, il 15 aprile scorso, hanno siglato l’ipotesi di contratto quadro sulla composizione dei comparti. L’accordo conferma i 4 comparti esistenti (funzioni centrali, funzioni locali, istruzione e ricerca, sanità) e costituisce il presupposto per l’avvio delle trattative per il rinnovo dei contratti di comparto. Tra cui quello che riguarda il personale della scuola.
Le trattative, però, partiranno dopo la firma definitiva del contratto quadro e, soprattutto, dopo l’emanazione dell’atto di indirizzo del comitato di settore del governo. Il contratto della scuola attende ormai da 3 anni di essere rinnovato. I fondi, peraltro, anche se esigui, sono disponibili per tutto il pubblico impiego già dal 2018. L’articolo 1, comma 436, della legge 145/2018, prevede infatti uno stanziamento di 1.100 milioni di euro per l’anno 2019, 1.750 milioni di euro per l’anno 2020 e 3.375 milioni di euro annui a decorrere dal 2021. A ciò va aggiunto un ulteriore stanziamento di 400 milioni di euro previsto dalla legge di bilancio di quest’anno. I 400 milioni vanno ad impinguare la dotazione finanziaria dal 2021 in poi. Quindi, la somma a regime dovrebbe essere pari a 3775 milioni di euro.
Considerato che i dipendenti pubblici, secondo le rilevazioni Istat del 2018 (le più recenti disponibili) sono 3.342.816, i fondi consentono incrementi retributivi medi di 1.129 euro l’anno a testa. L’importo, però, è al lordo delle trattenute fiscali e previdenziali (cosiddetto lordo stato). Per arrivare alla cifra netta bisogna togliere circa il 50%. Che è pari, grosso modo, all’importo dei contributi e delle ritenute fiscali. A conti fatti, 40-50 euro in più a testa.
Nella scuola gli importi potrebbero essere ancora inferiori. Perché il criterio che viene applicato per la distribuzione degli aumenti consiste nell’applicare una percentuale identica a prescindere dall’importo di partenza delle retribuzioni. E siccome le retribuzioni della scuola sono le più basse del pubblico impiego, ad ogni rinnovo contrattuale la forbice si apre sempre di più e il divario tra qualifiche analoghe nei vari comparti aumenta costantemente. E poi c’è il problema del coordinamento delle disposizioni del contratto del 2007 e del 2018 con le innovazioni legislative introdotte nel corso degli anni. Coordinamento che dovrebbe essere attuato tramite la compilazione di un corposo testo unico delle disposizioni contrattuali che andrebbero attentamente vagliate, una per una, al tavolo negoziale.
Il lavoro da svolgere è tutt’altro che facile. Prima di tutto bisognerà verificare gli effetti delle norme di legge che si sono succedute nel tempo dopo il 2007. Norme che, per effetto della inderogabilità delle disposizioni di legge da parte della contrattazione collettiva, ormai prevalgono sulla disciplina contrattuale. Molte norme di legge hanno peggiorato il trattamento contrattuale.
Per esempio, quelle sul vincolo di permanenza quinquennale nella sede di prima assegnazione per i neoimmessi in ruolo. Oppure quelle che hanno cancellato i rimedi stragiudiziali per le controversie di lavoro, comprese quelle di natura disciplinare. Ma ve ne sono anche altre che hanno ampliato il regime di tutela dei lavoratori come, per esempio, quelle sui congedi parentali e, da ultimo, la norma che ha introdotto il permesso specifico per la vaccinazione. Ma c’è anche un altro aspetto molto importante che riguarda il trattamento deteriore previsto per i precari. Sia per quanto riguarda il trattamento retributivo che per la disciplina dei permessi.
Anche su questa delicata materia le parti dovranno necessariamente aggiornare le vecchie clausole negoziali adeguandole alla legislazione vigente e anche ai più recenti orientamenti della Suprema corte. Si pensi, per esempio, al diritto alla retribuzione professionale docenti per i supplenti con nomina del preside. Diritto che viene ancora negato nonostante la Cassazione abbia spiegato che il diritto sussiste già secondo le disposizioni contrattuali vigenti (si veda l’ordinanza della sezione lavoro 20015/2018). Oppure al diritto al completamento per i precari che, per contro, la Cassazione ha posto praticamente nel nulla con la sentenza 24214/2017. Motivo per cui l’intera disciplina andrebbe totalmente riscritta per consentire ai docenti più titolati di non essere scavalcati in graduatoria da colleghi meno titolati, per questioni meramente organizzative riguardanti la compatibilità di orario, che nulla hanno a che fare con la sostanza di questo istituto giuridico.
Poi c’è la questione della formazione che da diritto è diventata un dovere. Ciò determina quindi la necessità di rivedere la norma sulle attività funzionali di natura collegiale riducendo le ore da destinare alle riunioni dei collegi e agli incontri scuola-famiglia. Oppure, in alternativa, bisognerà prevedere una dotazione finanziaria specifica per retribuire la formazione come lavoro straordinario. Insomma, la strada è tutta in salita e sconta l’inerzia degli anni precedenti.