da Il Sole 24 Ore di Claudio Tucci : Per capire come mai a un mesetto dalle parole in Parlamento del premier, Mario Draghi, di «recuperare le ore perse» per la troppa Dad, il ministro dell’Istruzione, Patrizio Bianchi, stia ancora approfondendo il dossier occorre fare un passo indietro, e ricordare quanto avvenuto a settembre 2020, quando dovevano svolgersi i corsi di recupero degli apprendimenti previsti da Lucia Azzolina, la prima a parlare (e a investire risorse) sui “ristori formativi”, dopo l’arrivo della pandemia, con le scuole chiuse dal 5 marzo e fine a fine anno.
Ebbene, nonostante questi corsi fossero stati normati da una legge, il dl 22 del 2020, articolo 2, comma 1 lettera a, e qualificati come «attività ordinaria», e quindi non retribuiti fino all’avvio delle lezioni (dopo potevano essere pagati come impegno aggiuntivo dei docenti attraverso le risorse del fondo d’istituto) in larghissima parte non sono stati fatti partire. La ragione? La mancata obbligatorietà per gli insegnanti, così come prevista nel Ccnl.
Uno stesso copione rischia di ripetersi ora quando da domani praticamente 9 studenti su 10 torneranno alle lezioni da remoto, acuendo disagi su disagi. Che ci sia bisogno di “recuperare terreno”, e in fretta, ormai non è più in discussione: dal primo al secondo ciclo di istruzione tutti i genitori, e gli stessi ragazzi, si sono resi conto dei limiti della scuola da remoto: l’ora di insegnamento non è mai intera (ci sono più pause, spesso anche di 15 minuti, per non stare troppo tempo davanti al pc), la connessione va e viene, i ragazzi si stancano prima.
Non a caso, nelle linee guida sulla Dad (ora chiamata Did) dello scorso agosto, è stata fissata alle superiori una percentuale di didattica “minima” da fornire agli studenti: almeno 20 ore settimanali in modalità sincrona con l’intero gruppo classe, con possibilità di prevedere ulteriori attività in piccoli gruppi o proposte in modalità asincroma. Alle elementari si scende addirittura a 15 ore settimanali di didattica sincrona con tutta la classe (10 ore per le prime classi della primaria – 2 al giorno), organizzate anche in maniera flessibile.
Gli effetti di tutta questa scuola “ridotta” sono drammatici: a livello internazionale, i primi studi, rivelano gap formativi stimati in un range dal 35 al 50% in matematica e nella propria lingua. Al netto delle ripercussione su socialità e psiche.
Il ministro dell’Istruzione, Patrizio Bianchi, è consapevole del problema. Dopodomani ne parlerà con i sindacati, avviando così il tavolo di confronto che dovrà portare anche a rinnovare il Ccnl. Intanto, con coraggio, ha fatto partire, in quinta superiore, con tempi dilatati, le prove Invalsi in italiano, matematica, inglese (che non furono svolte lo scorso anno) proprio per iniziare a capire l’entità dei danni; e ha affidato a una commissione di esperti il compito di individuare possibili soluzioni.
Le idee sul tavolo sono diverse, e alcune interessanti: lasciare all’autonomia delle scuole e dei singoli insegnanti, attraverso i consigli di classe, il compito di capire le eventuali carenze, e poi coinvolgere docenti, ma anche territori, comunità, terzo settore, su possibili interventi di recupero di socialità e apprendimenti. Partendo appena si potrà, e fino a giugno inoltrato, e perché no anche con sconfinamenti in estate. Non si tratta di tenere gli studenti in aule infuocate, bensì di un progetto più articolato, all’interno dei cosiddetti «patti educativi di comunità».
Ma anche i migliori propositi, quando si passerà dalle proposte ai fatti, rischiano di “sbattere”, come l’anno scorso, contro le rigidità dell’attuale Ccnl. Almeno per quanto riguarda il coinvolgimento dei docenti.
Non a caso i sindacati della scuola hanno subito alzato un muro preventivo, contrari a qualsiasi ulteriore aggravio lavorativo del corpo insegnante, soprattutto se non retribuito. Ma cosa prevede il Ccnl? Il Ccnl del settore, all’articolo 28, stabilisce che l’attività di insegnamento si svolga nell’ambito del calendario scolastico regionale delle lezioni (25 ore settimanali per l’infanzia fino al 30 giugno, 22 ore per primaria, + le 2 di programmazione, 18 ore a medie e superiori). All’articolo 29, poi, si indicano le “attività funzionali” all’insegnamento che sono: preparazione delle lezioni ed esercitazioni, correzione degli elaborati, colloqui con le famiglie, partecipazione alle riunioni di collegi docenti (fino a 40 ore annue) e consigli di classe (fino a 40 ore annue), svolgimento di scrutini ed esami. In pratica, tutte queste attività sono obbligatorie, e il professore è tenuto a svolgerle. Tutto il resto, come ad esempio i corsi di recupero, anche pomeridiani, sono facoltativi (se eccedenti l’orario di cattedra), quindi non obbligatori, seppure pagati.
Alla base di tutto ci sono due aspetti, entrambi delicati. Il primo, è la bassa retribuzione dei docenti italiani, fanalino di coda nell’Ue. L’altro, collegato, è la tacita prassi che terminate le lezioni, o le attività obbligatorie (ad esempio, gli esami) ai prof non si possa chiedere altro fino a fine agosto. Nonostante la norma preveda di tenersi disponibili per esigenze della scuola, se non in ferie o permesso. In realtà, le ferie degli insegnanti non sono, sulla carta, così lunghe: da Ccnl, 30 giorni, per i neo assunti, e 32 giorni per tutti gli altri, più 4 di festività. Come si arriva a circa due mesi? Anche qui, attraverso una “rigorosa applicazione” del Ccnl. La regola generale è che un prof deve andare a scuola se c’è qualcosa da fare, o di già programmato nel piano delle attività predisposto ad inizio anno scolastico. Ad agosto le attività sono ferme, a luglio basta prendere ferie o non avere attività obbligatorie da svolgere. E i corsi di recupero non lo sono. Una sorta di “salario invisibile” o di “retribuzione implicita”, che dir si voglia. Le regole, per carità, sono regole. Ma di fronte a una pandemia mondiale, e ai danni che stanno subendo 8 milioni di studenti, e ai sacrifici dei loro genitori, un po’ più di flessibilità, forse, non guasterebbe.