La Corte di Appello di Milano ha respinto l’appello proposto dal Ministero dell’Istruzione Università e Ricerca avverso la sentenza del Tribunale di Busto Arsizio che aveva riconosciuto il diritto di un docente assunto a tempo determinato, a fruire del congedo straordinario per dottorato
I fatti
Il dottorato di ricerca ex art. 2 della legge 13/8/1984 n. 476, come modificato dall’art. 52 della legge n. 448 del 2001, era da svolgersi presso l’Università di Messina nel periodo 3 settembre 2007/30 giugno 2008, e il tribunale aveva condannato l’amministrazione scolastica alla conservazione del trattamento economico, previdenziale e di quiescenza. La Corte territoriale, pur manifestando perplessità in relazione alla peculiarità del caso, ha richiamato a fondamento della decisione il principio di non discriminazione fra assunti a tempo indeterminato e lavoratori a termine ed ha evidenziato anche che l’interesse perseguito dalle norme sul congedo per ragioni di studio non è quello dell’amministrazione ma è riconducibile a diritti fondamentali della persona garantiti a livello costituzionale
Il ricorrente fa leva sul disposto dell’art. 18 del CCNL e sottolinea che la disposizione, quanto all’aspettativa per motivi di studio, ricerca o dottorato richiama espressamente l’art. 453 del d.p.r. n. 297 del 1994 e l’art. 2 della legge n. 476 del 1984, secondo cui in caso di ammissioni a corso di dottorato di ricerca senza borsa di studio, l’interessato in aspettativa conserva il trattamento economico, previdenziale e di quiescenza ma a condizione che dopo il conseguimento del dottorato il rapporto di lavoro prosegua per almeno due anni, condizione, questa, in difetto della quale è dovuta la ripetizione degli importi corrisposti. La norma, quindi, nella parte in cui prevede il diritto anche alla conservazione del trattamento economico, non è compatibile con il rapporto a tempo determinato, posto che nel caso di specie quest’ultimo sarebbe scaduto a giugno 2008, ben prima del conseguimento del dottorato di durata triennale.
La causa giunge alla Cassazione Civile Sent. Sez. L che con Sentenza Num. 3096 Anno 2018 accogliendo il ricorso del MIUR.
Sul trattamento economico per i dipendenti pubblici ammessi al dottorato di ricerca
Questa Corte ha già affermato (Cass. 3 maggio 2017 n. 10695) che la legge del 2001 ha previsto il diritto al trattamento economico per i dipendenti pubblici ammessi al dottorato di ricerca senza borsa di studio al fine di incentivare l’arricchimento del bagaglio culturale dei dipendenti stessi, a prescindere da soglie di reddito. Nello stesso posto di lavoro successivamente al conseguimento del titolo, in modo da consentire all’amministrazione di fruire delle conoscenze acquisite dal dipendente grazie agli studi post-universitari. La norma, quindi, «ha ritenuto di contemperare il diritto allo studio del pubblico dipendente con l’interesse della pubblica amministrazione, stabilendo, da una parte, l’incondizionata erogazione di un emolumento economico (la borsa di studio o la retribuzione) e dall’altra una condizione di stabilità del rapporto di pubblico impiego» che giustifica la deroga, per il periodo di svolgimento del dottorato, al principio generale di sinallagmaticità. Sebbene la disposizione si riferisca al «pubblico dipendente», senza ulteriori precisazioni, la ratio della norma come sopra individuata porta a ritenere che il legislatore ne abbia voluto circoscrivere l’applicazione ai soli casi in cui l’ammesso al corso di dottorato sia legato all’amministrazione da un rapporto a tempo indeterminato, perché è proprio sulla stabilità che si fonda il contemperamento fra gli opposti interessi in gioco, tanto che è stata prevista come condizione risolutiva del beneficio la cessazione del rapporto stesso, ove intervenuta prima del compimento del biennio. La norma, quindi, non garantisce la conservazione del trattamento economico, previdenziale e di quiescenza, anche all’assunto a tempo determinato.
Sulla mancata sussistenza della discriminazione
La Corte di Giustizia ha da tempo chiarito con plurime pronunce ( per le quali si rimanda ai richiami contenuti nella recente ordinanza della Corte di Giustizia 14/9/2016 in causa C-16/15, Lopez Servicio Madrileno de Salud) che il divieto dì trattamenti discriminatori nelle condizioni di impiego non opera qualora « la disparità di trattamento constatata sia giustificata dalla sussistenza di elementi precisi e concreti, che contraddistinguono la condizione di lavoro di cui trattasi, nel particolare contesto in cui s’inscrive e in base a criteri oggettivi e trasparenti, al fine di verificare
se tale disparità risponda ad una reale necessità, sia idonea a conseguire l’obiettivo perseguito e risulti a tal fine necessaria. Tali elementi possono risultare, segnatamente, dalla particolare natura delle funzioni per l’espletamento delle quali sono stati conclusi contratti a tempo determinato, dalle caratteristiche inerenti a queste ultime o, eventualmente, dal perseguimento di una legittima finalità di politica sociale di uno Stato membro (sentenze del 13 settembre 2007, Del Cerro Alonso, C-307/05, EU:C:2007:509, punto 53 e 58; del 22 dicembre 2010, Gavieiro Gavieiro e
Iglesias Torres, C-444/09 e C-456/09, EU:C:2010:819, punto 55; ordinanza del 18 marzo 2011, Montoya Medina, C-273/10, non pubblicata, EU:C:2011:167, punto 41; sentenza dell’8 settembre 2011, Rosado Santana, C-177/10, EU:C:2011:557, punto 73, e ordinanza del 9 febbraio 2012, Lorenzo Martínez, C-556/11, non pubblicata, EU:C:2012:67, punto 48)» ( Corte di Giustizia 14.9.2016 cit. punto 51).
Quando è giustificata la disparità di trattamento
A sua volta l’art. 6 del d.lgs. n. 368 del 2001, nel recepire il principio fissato dalla clausola 4 dell’accordo quadro, ha stabilito la tendenziale estensione al lavoratore a termine di ogni trattamento riservato ai dipendenti a tempo indeterminato «sempre che non sia obiettivamente incompatibile con la natura del contratto a termine». Gli elementi concreti che secondo la Corte di Giustizia giustificano la disparità di trattamento sussistono senz’altro nella fattispecie, nella quale viene in rilievo una supplenza di durata annuale, per quanto si è sottolineato sulle ragioni sottese alla norma, che, presupponendo una stabilità minima del rapporto, escludono la piena comparabilità rispetto all’istituto in discussione del lavoratore a tempo determinato, qualunque sia la durata del contratto a termine, con il dipendente a tempo indeterminato. Infatti la non comparabilità delle due situazioni a confronto, rispetto all’aspettativa retribuita, emerge evidente se si considera che, ove si consentisse al dipendente assunto a tempo determinato di fruire del beneficio senza imporre ulteriori condizioni, si finirebbe per legittimare una discriminazione a contrario, perché per il lavoratore a termine, se oggettivamente impossibilitato a garantire la stabilità biennale, non potrebbe mai operare la condizione risolutiva, limitata dal legislatore alla risoluzione del rapporto riferibile alla volontà del dipendente. Un problema di compatibilità della normativa nazionale, come si è detto applicabile ai soli assunti a tempo indeterminato, con il diritto dell’Unione si potrebbe, al più, porre se, in ipotesi, la durata del rapporto a tempo determinato fosse compatibile con la condizione imposta dalla norma, ossia con la prosecuzione almeno biennale una volta terminato il periodo di aspettativa, ma non è questo il caso che qui viene in rilievo, perché al Saccà, pacificamente, era stato conferito un incarico annuale.
I principi qui affermati non contrastano, ed anzi si pongono in continuità, con quanto statuito da Cass. 7.2.2011 n. 3871 che ha affrontato la diversa questione dei permessi retribuiti per motivi di studio e che, nel richiamare il divieto di trattamenti discriminatori, ha evidenziato che lo stesso non opera qualora sussista una obiettiva incompatibilità dell’istituto, del quale si invoca l’estensione, con la natura a termine del rapporto, «non eliminabile con frazionamenti temporali del trattamento
mediante il criterio del pro rata temporis» e da valutare « in concreto in relazione alle specifiche modalità di svolgimento del rapporto e alle obiettive esigenze e finalità su cui si fonda la legittima apposizione del termine di durata del contratto». Detta incompatibilità sussiste, per quanto sopra si è evidenziato, nella fattispecie rispetto alla aspettativa retribuita prevista dall’art. 2 delle legge n. 476 del 1984, in relazione alla quale va enunciato il seguente principio di diritto: « l’aspettativa retribuita in caso di ammissione a corsi di dottorato di ricerca, prevista dall’art. 2 della legge 13/8/1984 n. 476, come modificato dall’art. 52, comma 57, della legge 22/12/2001 n. 448, è stata riservata dal legislatore al rapporto a tempo indeterminato, come si desume dal riferimento alla prosecuzione del rapporto, per un periodo minimo di durata, dopo il conseguimento del dottorato. La limitazione agli assunti a tempo indeterminato non contrasta con il principio di non discriminazione sancito dalla clausola 4 dell’accordo quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE nel caso in cui non vi sia compatibilità fra la condizione risolutiva prevista dallo stesso art. 2, giustificata da una legittima finalità, e la durata del contratto a termine, tale da non consentire, dopo il conseguimento del dottorato, la prosecuzione almeno biennale del rapporto ».