L’ispettore del Miur Max Bruschi, è intervenuto, attraverso un post pubblicato su Facebook, sul tema della formazione dei dirigenti scolastici. Nel lungo scritto, Bruschi spiega come il Dirigente Scolastico sia all’interno della scuola il Capo del Personale, una figura che, generalmente, è immaginata all’interno delle aziende, ma che invece è perfettamente aderente ai compiti del ds in base alla rivoluzione applicata dalla legge 107/2015.
“Il piano di formazione dei dirigenti scolastici rappresenta una rivoluzione. Tutto sta a vedere, se e come si riusciranno a cogliere le opportunità del nuovo modello. Ma il passaggio è particolarmente delicato perché la 107/2015 ha sostanzialmente mutato il “profilo” del dirigente scolastico. La valutazione, la compilazione del Rapporto di autovalutazione, del Piano di miglioramento, del Piano triennale dell’offerta formativa hanno, a mio avviso, una chiave di volta rappresentata dalla gestione dell’organico dell’autonomia.
Se tutto il resto delle innovazioni può essere ricondotto a istituti giuridici preesistenti, sperimentati, dibattuti, la gestione del personale docente, come configurata dalla norma, rende davvero il DS “capo del personale”, con oneri e onori connessi. E se è vero che la mission dell’istituzione scolastica è offrire il miglior servizio di istruzione possibile e che questo servizio è direttamente correlato agli insegnati, sono appunto le fasi di gestione dell’organico a influire sul raggiungimento o meno dell’obiettivo.
In attesa di capire cosa ne sarà della “individuazione per competenze”, desidero soffermarmi su tre aspetti tra loro concatenati: il portfolio (e soprattutto la parte di “bilancio delle competenze”); il “patto per lo sviluppo professionale” e le connesse attività di formazione, a partire dagli insegnanti neoimmessi in ruolo, per i quali i tre strumenti rappresentano una acquisizione già stabile.
Al di là degli adempimenti amministrativi, non posso fare a meno di evidenziare alcune zone di criticità.
La prima, riguarda la nomina dei tutor. Nei casi più virtuosi, riguarda docenti che, per attitudine o per profilo professionale, sono individuati in virtù del possesso delle competenze adatte. In altri casi, l’attribuzione dell’incarico è su base prettamente volontaria o vanta, come unico criterio, l’anzianità di servizio. Personalmente, presterei più attenzione, perché il ruolo del tutor è fondamentale (pure, negli interpelli per competenze dello scorso anno che ho esaminato, non ho mai visto tra i titoli richiesti l’aver svolto il ruolo di tutor/supervisore presso le SSIS, TFA o SFP).
Sulla base del DM 850/2015, il tutor non è solo chiamato alla valutazione, ma a un “accompagnamento” del docente neoimmesso in tutte le fasi. Non è, insomma, un “giudice”, ma un mentore. La programmazione annuale, il bilancio delle competenze, il patto di sviluppo professionale sono non solo adempimenti, ma atti anche culturali condotti “di concerto” tra i vari soggetti. Mi domando, ad esempio, come possano prescindere, a partire dalla “autovalutazione” che ne rappresenta la “base”, da una prima osservazione del docente nella classe, da parte del tutor e del ds. E mi domando come un tutor professionalmente competente possa avallare un bilancio che rappresenta, a volte, una sorta di racconto impressionistico e magari un poco enfatico del proprio vissuto. Un bilancio, per essere tale, ha la necessità di essere, mi si perdoni il termine, “spietato”. Perché, se non lo è, si riversa in un “patto di sviluppo” privo di agganci con la realtà.
E proprio sul patto di sviluppo occorre compiere una seconda riflessione. Anche in questo caso, non so se a causa della “modellistica” o per trascuratezza, capita che risulti meramente “riempito” di indicatori. Mi è successo di contarne sino a ventitré. E non so chi possa, nel giro per di più di pochi mesi, formarsi su ventitré aspetti diversi.
E’ ovvio che, con simili presupposti, anche l’attività formativa rischia di risultare casuale e, soprattutto, priva di quella “personalizzazione” che invece è l’elemento essenziale per consentire a un docente uno sviluppo professionale reale. Ma una attività formativa “impersonale” ha una serie di ricadute negative. E’, innanzitutto, uno spreco di risorse (di fatto, se non di diritto), a partire dalla risorsa più preziosa, perché non ricostituibile, rappresentata dal tempo, per finire con le risorse economiche. E’, in secondo luogo, concausa di “malessere professionale” e lesiva del “senso dell’appartenenza” al pubblico impiego, in quella zona ove il “servitore dello Stato” rischia di trasformarsi in Monsù Travet. Sulla necessità della formazione obbligatoria vi è poco da discutere. Ma, con altrettanta energia, non si possono che stigmatizzare tutti quei casi ove la formazione da obbligatoria si trasforma in “coatta”.
E’ ovvia l’esigenza di ottimizzare le risorse. Ma non sarebbe opportuno, nell’ambito del “patto”, un impiego intelligente della “carta del docente” (peraltro già evidenziato dal dm 850/2015), svincolando l’insegnante dalla reiterazione di una formazione non necessaria?
Sono passaggi che richiedono una particolare attenzione da parte dei soggetti in campo: del DS, innanzitutto, chiamato a comportarsi e ad agire (anche) da responsabile delle risorse umane… e magari ad individuare, nell’ambito del “10%” di monte ore distaccabile, figure in grado di coadiuvarlo.
Ma sono temi che, per la loro valenza culturale e per la loro carica innovativa, richiedono azioni formative di sistema che non so quanto spazio potrebbero trovare nei “gruppi di autoformazione”, pure sicuramente positivi per la costituzione di “reti professionali” finalizzate alla “ricerca-azione”.
Fonte: www.gildavenezia.it