Una rivoluzione nel pubblico impiego, la direttiva Madia pronta per essere emanata stravolge l’impostazione dei rinnovi contrattuali: aumenti solo a chi ha un reddito inferiore a 26 mila Euro l’anno.
L’ARAN, angenzia statale addetta al rinnovo dei contratti, dovrà cercare di strappare l’accordo ai sindacati, ma crediamo che non sarà facile, intanto c’è già chi si sta liscando le mani sperando poi di organizzare i ricorsi.
A fare il punto della situazione Roberto Mania, nell’articolo che segue.
Svolta nel pubblico impiego: gli aumenti retributivi nel prossimo rinnovo contrattuale interesseranno solo i lavoratori a basso reddito, sostanzialmente un terzo dei dipendenti pubblici, circa 800 mila, quelli – probabilmente – sotto i 26 mila euro lordi annui. È la linea decisa dal ministro della Pubblica amministrazione, Marianna Madia. La direttiva del ministro all’Aran, l’agenzia per la contrattazione nella pubblica amministrazione, arriverà subito dopo il via libera da parte del Consiglio dei ministri (possibile in settimana) all’accordo, tra sindacati e l’Aran stessa, che riduce da undici a quattro i comparti contrattuali nel pubblico impiego. Entro luglio potrebbero partire le trattative dopo oltre sei anni di blocco ai rinnovi imposto dalle politiche di austerity. “E allora – ragiona Madia – è giusto, e anche morale, che si sostengano prima i lavoratori che hanno pagato di più gli effetti della crisi”.
Che si tratti di un cambiamento importante non c’è dubbio. “Sarebbe la prima volta, non ci sono precedenti”, commenta Sergio Gasparrini, presidente dell’Aran. D’altra parte il contesto è decisamente mutato. Nell’ultima legge di Stabilità, dopo che la Corte costituzionale ha detto che i contratti non potevano restare ancora fermi, sono stati stanziati solo 300 milioni per gli aumenti salariali. Una cifra che se spalmata sull’intera platea dei 3,2 milioni di dipendenti pubblici garantirebbe un aumento non superiore ai dieci euro a testa.
Sull’orientamento della Madia pesano anche altri fattori. Intanto non c’è più l’inflazione. La dinamica dei prezzi tende alla deflazione (ad aprile – 0,3 per cento) “e dunque non c’è più – sostengono al ministero – la necessità di proteggere il potere d’acquisto”.
C’è, poi, un modello contrattuale su due livelli, nazionale e decentrato, con il primo ancorato all’Ipca, l’indice dei prezzi appunto depurato dai prezzi dei prodotti petroliferi importati, che stenta a tenere il passo dopo trasformazioni globali prodotte dalla lunga crisi. Non può essere un caso, infatti, che in due settori chiave per la contrattazione, per quanto agli antipodi per l’apertura alla concorrenza, quello dei metalmeccanici e quello della pubblica amministrazione, le parti datoriali ipotizzino soluzioni che vanno praticamente nella stessa direzione. La Federmeccanica (l’associazione delle imprese metalmeccaniche) ha infatti proposto di limitare gli incrementi retributivi a livello nazionale esclusivamente ai lavoratori che si trovano sotto il minimo contrattuale, cioè solo il 5 per cento della categoria, lasciando che per gli altri sia la contrattazione in azienda (legata a parametri di produttività) a definire gli aumenti salariali. Su questa proposta si è aperto lo scontro con i sindacati. La scorsa settimana ci sono stati scioperi, e il negoziato è fermo. Anche la Madia rischia di andare allo scontro con i sindacati che bocciano l’idea di aumenti solo per i redditi più bassi: “I sacrifici – dicono – li hanno fatti tutti”. E richiamano la sentenza della Consulta che ha costretto il governo a rifinanziare i rinnovi contrattuali. Per quanto Tiziano Treu, giuslavorista, ex ministro e anche ex presidente dell’Aran, consideri compatibile, “in via eccezionale”, la strada degli aumenti selettivi con le norme costituzionali. Certo è una via tutta da sperimentare.
E va al suo primo test anche l’intesa, raggiunta un paio di mesi fa, sui comparti, che si riducono da undici a quattro: funzioni centrali (ministeri, agenzie fiscali, enti pubblici non economici, con circa 247 mila lavoratori); funzioni locali (Regioni e autonomie locali, con circa 457 mila lavoratori); istruzione e ricerca (scuola, università, enti di ricerca, con 1,1 milioni di lavoratori); sanità (con circa 531 mila lavoratori). L’accorpamento delle aree contrattuali imporrà aggregazioni anche tra i sindacati, i più piccoli dei quali, rappresentativi nei micro comparti precedenti, rischiano, in un comparto più grande, di scendere sotto il 5 per cento della rappresentatività.
Altro test al Consiglio dei ministri in settimana per il decreto sulla licenziabilità dei “furbetti del cartellino”, con tempi più certi su sospensione e sanzioni in caso di flagranza di reato.
fonte Repubblica.