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Che scuola è? Le proposte di riforma tra sfide e timori

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Le interviste del Sottosegretario Roberto Reggi

Alcuni giorni fa, il sottosegretario alla PI, Roberto Reggi, ha concesso, sulla riforma della scuola, interviste  a Il Sussidiario.net e a la Repubblica, il 3 luglio, e  a ItaliaOggi l’8.

SICURONella prima, i messaggi sono tutti rassicuranti o in ogni caso condivisibili: investire sulla qualità dei docenti è il punto di partenza; la prima attenzione va rivolta alla qualità di chi assumiamo; la sola teoria non basta a fare un buon insegnante; investire sulla formazione in  servizio, che dovrà progressivamente divenire obbligatoria; no alla valutazione diretta da parte dell’INVALSI dell’operato dei docenti; nel piano di riforma ci sarà anche il tema della carriera di docenti e dirigenti scolastici; che non sarà più legato solo all’anzianità, ma anche a competenze e formazione e all’impegno nelle attività per il funzionamento didattico-organizzativo.
La seconda intervista entra un po’ più nel merito e tocca temi sensibili in termini però che pongono non pochi interrogativi sulle intenzioni ministeriali.
Nella terza c’è qualche precisazione ulteriore sull’orario degli insegnati, sul rapporto coi sindacati  e sulla riduzione di un anno per le superiori.

Una nuova parola chiave: “rimodulare”

Nella  seconda intervista, che “ha fatto più notizia”, perché di gran lunga la più letta, il messaggio di partenza, molto chiaro, è: soldi in più non ce n’è, nè per oggi né per l’immediato futuro;  ma non ci saranno neanche tagli. Se si vuole innovare, occorre “rimodulare” quello che si ha.
Una premessa che potrà anche dispiacere e far gridare qualcuno al “tradimento”; ma almeno è chiara e precisa. E con la quale fare i conti (senza mai comunque rassegnarsi. E anche il Sottosegretario ne è convinto).
Parola chiave diventa quindi, in questa operazione, “rimodulare”. Cosa? Per la verità, in questa intervista (ma anche in quella dell’8 luglio) non si fa riferimento all’orario di lavoro a 36 ore su cui si è molto esercitata la stampa. Però si dice chiaramente che dentro il servizio obbligatorio docente vanno inserite anche le supplenze brevi  e le attività di recupero: quest’ultime, possono essere programmate non solo per  i periodi dell’attività didattica ordinaria. Si parla infatti di scuola aperta per 11 mesi su 12.
La “rimodulazione” dovrebbe riguardare (la si prospetta come ipotesi) la riduzione di un anno del percorso scolastico che si concluderebbe così a 18 anni; oltre al il taglio di una sede ministeriale (che passerebbero da quattro a tre).
I risparmi che si otterrebbero – questo è il ragionamento che si fa – dovrebbero essere investiti per la formazione permanente dei docenti, che si prevede progressivamente obbligatoria, e perincentivare economicamente gli insegnanti impegnati nel funzionamento didattico-organizzativo delle scuole (si citano, a livello esemplificativo – penso – i compiti di coordinamento). Si arriverebbe in questo modo (ma solo per le funzioni aggiuntive particolari, sembra di capire), a retribuzioni di livello europeo.
Si parla anche di “togliere rigidità al contratto” e di “consultazione aperta”. Espressioni soft con cui si intende dire che questo tipo di riforma, che riguarda in primo luogo lo stato giuridico dei docenti, lo si fa attraverso provvedimenti legislativi senza le contrattazioni, generali e canoniche, con le organizzazioni sindacali di categoria. La consultazione con i soggetti interessati (non solo quindi con il personale della scuola) sarà del tipo che è stato messo in atto per la riforma della pubblica amministrazione: on line e per la durata di un paio di mesi (tutti nel periodo estivo! Evviva! Così la partecipazione è più intensa). Ovviamente, si assicura che si continuerà a dialogare con i sindacati sui vari aspetti (soprattutto sull’orario di lavoro, immagino, e sull’utilizzo  di eventuali risorse “fresche”, “se siamo d’accordo sugli obiettivi”, come si legge nell’ultima intervista). Ma la via legislativa non viene  messa in discussione. 
Queste, in sintesi le cose che si dicono nelle  interviste.

Gli interrogativi e il sospetto

  1. Va subito detto che certe proposte sull’allungamento dell’orario di servizio e dell’attribuzione di funzioni finora remunerate a parte, sembrano rispondere all’obiezione di quanti pensano che gli insegnanti siano dei privilegiati: che hanno troppe ferie, un orario di lavoro sostanzialmente ridotto e che, tutto sommato, non rispondono di niente e, solo in percentuale non certo elevatissima, fanno bene e con buoni risultati il loro lavoro. Probabilmente c’è anche una preoccupazione di questo tipo. Ma certamente vi si può leggere anche l’intento di  dare risposta alla domanda di più tempo  per il lavoro con gli studenti e quindi di più attenzione ai temi della  povertà culturale e delle diseguaglianze.

La domanda però è: messe nei termini indicati, le proposte hanno gambe per camminare e arrivare ai risultati che vogliamo? Certamente la risorsa tempo scuola è importante. Certamente alcune attività vanno salvaguardate (formazione professionale,  tutoring, sostegno all’apprendimento, inclusione) e messe in carico all’orario complessivo.
Ma i testi delle interviste si prestano a letture che aiutino la creazione di un clima favorevole alla rinascita della nostra scuola?
“Rimoduliamo” anche; ma bisogna che si capisca di più l’idea di scuola che si prospetta e che siano ben leggibili percorsi e  tappe, autonomie e vincoli. E soprattutto non si trascurari il tema fondamentale di “risorse fresche”.

  1. Così pure l’ipotesi della conclusione dei cicli a 18 anni. Ci sono ragioni che possono spingere in quella direzione. Sappiamo che il panorama europeo al riguardo è piuttosto eterogeneo. Ma non si taglia un anno di scuola per fare cassa. Si taglia perché – sulla base di studi e ricerche – così com’è, il quinto anno può essere considerato inefficace e  può significare poco o niente rispetto alla crescita dello studente, ecc. ecc..
    Non certo per recuperare risorse finanziarie da investire su qualcos’altro (di cui si parla anche nella terza intervista, ma di cui non si vedono tra l’altro ancora i contorni).
  2. Sulla proposta, poi, di  scuole sempre aperte e funzionanti per 11 mesi all’anno: anche per rispondere alle domande di integrazione culturale dei giovani (la scuola come “centro sociale”, anche  per “fare più musica e storia dell’arte”.): Può essere certamente una via per rilanciare la sfida di una scuola più vicina ai giovani. Ma vengono subito, tra gli altri, rilievi critici abbastanza di fondo. Del tipo: “Va bene la scuola come centro sociale. Ma prima, facciamola funzionare come si deve proprio come scuola: recuperiamo la centralità degli apprendimenti, il senso profondo della sua missione. Va bene dunque una scuola aperta il pomeriggio, che diventi centro di  iniziative anche di associazioni o enti locali o altri soggetti (cosa anche oggi discretamente diffusa, almeno in alcune realtà regionali). Ma non dovremmo, in una riforma che voglia essere tale, concentrarci di più sulle priorità? E soprattutto sul fatto che la scuola deve in primo luogo fare bene le cose che è chiamata a fare? E che sono scritte nei suoi ordinamenti?  Solo chiarendo i vincoli di mandato, possiamo precisare compiti e responsabilità dei docenti e della scuola, ma anche dei governi e fondare una cultura generalizzata dell’accountability”. O no?
  3. Infine sulla consultazione e sui rapporti col sindacato.

Bene ovviamente la consultazione “aperta”. Personalmente penso però – con riferimento ai rapporti col sindacato – che le rigidità non giovino alla causa e che ci sia molto da guadagnare da un tavolo generale di lavoro coi  sindacati di categoria, se l’obiettivo è uscire fuori dal pantano in cui ci troviamo e creare le condizioni perchè il lavoro nella scuola riacquisti dignità. È una leggenda metropolitana quella per cui se le cose non hanno funzionato, la colpa è  tutta del sindacato. È la politica soprattutto che non ha fatto la sua parte, che non ha avuto coraggio, perché non ha messo in campo idee innovative; e quando le ha avute non ha saputo difenderle. (Anche se va ammesso che i Sindacati ci hanno messo del “loro” e che traguardi e strategie devono profondamente cambiare per tutti).
Comunque, «Se ognuno sta fermo sulle proprie posizioni non si vince la sfida del rinnovamento della scuola”. Parole del Sottosegretario. Che va preso in parola
Nessun rilievo sulla formazione progressivamente obbligatoria: la condivisione non può che essere totale. Come più che giuste sono le attenzioni riservate, nelle interviste, a come selezionare i nuovo docenti e dirigenti scolastici; e  le aperture sulla progressione di carriera legata a formazione, disponibilità a coprire funzioni stabili che favoriscano un  funzionamento orientato al risultato, anche attraverso – si auspica – una leadership diffusa e motivata.

Per una “rivoluzione graduale”

Nell’attesa che il cantiere ci faccia conoscere le sue proposte definitive, qualcosa può essere però utile dirci sulle aree di attenzione e sugli interventi prioritrari auspicabili.
Fuori lista, ma prioritario in assoluto, è quello di mettere la parola fine al vergognoso problema del precariato, attraverso percorsi formativi dignitosi per gli interessati ed efficaci per la scuola.
Ciò premesso, si vorrebbe – con riferimento ad una possibile “visione” fondativa dei provvedimenti – che da questa riforma uscisse, se non sconfitta, almeno fortemente depotenziata la carica distruttiva che viene dal  modello professionale e culturale dell’insegnante  ancora prevalente e dal  modello organizzativo in cui questo  si alimenta e prende forma: quella dell’individualismo e dell’autoreferenzialità.
Individualismo e autoreferenzialità come retaggio soprattutto (ma non solo) della scuola disciplinarista, responsabile, quando lo è, dell’insegnamento – ma non dei risultati del lavoro docente ,  identificato con la lezione ancora diffusamente frontale (con qualche variante “modernizzante”). E che scarica sullo studente l’onere dell’apprendimento. Almeno nella Secondaria.
Ma individualismo e autoreferenzialità anche – e soprattutto – come  esito  di indifferenza e debolezza istituzionale (ministeriale e quindi governativa), che un po’ da sempre ha caratterizzato la gestione della nostra scuola da parte di quasi tutti i ministri che si sono succeduti nel dopo guerra (la considerazione è sommaria, ma coglie, credo, l’essenziale). Debolezza istituzionale  che è figlia di una visione di basso profilo del lavoro docente, traducibile nell’espressione “ti pago poco, ma ti chiedo anche poco”.
E che ha lasciato – e ha quindi permesso – che l’identità e i connotati della scuola-istituzione fossero  affidati alle percezioni e alle interpretazioni soggettive  dei singoli docenti e capi di istituto (gestione dei programmi, degli obiettivi, della valutazione ….e  quindi della missione e delle responsabilità).
Da ciò la scarsa o nulla capacità – dei ministeri responsabili – di indirizzare, in modo efficace, gli orientamenti degli operatori scolastici e fare emergere un aspetto connotante dell’essere scuola: quello del lavoro scolastico come impresa collettiva.
Al riguardo, ha scritto pagine chiare Piero Romei[1],  già 15 anni fa, rilevando elementi di segno pesantemente negativo nella gestione del sistema –  e del personale in primo luogo -.

Quali ad esempio:

  1. “l’assenza di indicazioni prescrittive”, – al di là degli adempimenti meramente formali – circa le prestazioni professionali degli insegnanti.
    È  questo che ha perpetuato-  ritengo – comportamenti di chiusura e separatezza individualistica, modelli didattici e cultura valutativa a cui resta estranea ogni forma sostanziale di collaborazione rispetto agli impegni comuni (“un insegnante non può lavorare solo da solo: il suo contributo copre solo un pezzo del servizio complessivo”. Romei);
  2. l’inadeguatezza e l’aleatorietà di  “strutture organizzative e procedure amministrative” in grado di “sostenere i diversi livelli di progettualità individuale e collegiale, connaturati con il servizio scolastico”.
    Si pensi, in proposito, all’esperienza in gran parte fallimentare degli IRSSAE prima e degli IRRE poi e al decollo sempre annunciato e mai realizzato dei centri territoriali di sostegno metodologigo, didattico e formativo per le scuole;
  3. “la mancanza di una reale elaborazione strategica” – rispetto al cuore della missione istituzionale -, ben evidente nella ambiguità, indeterminatezza, vaghezza  degli  obiettivi in uscita (che giustificano comportamenti individualistivi dei docenti e rendono impossibili pratiche comuni, valutazione di processi e risultati e miglioramenti);
  4. “la non disponibilità di strumenti e prassi adatte a coltivare una comunicazione efficace e persuasiva”. Che interpreto riferita ai cambiamenti e alle innovazioni di ordinamenti e pratiche. (Si pensi solo al livello di conoscenza, in gran parte delle nostre scuole, delle Linee Guida per Istituti Tecnici e Professionali e delle Indicazioni nazionali per i Licei, conseguenti alle operazioni di Riordino: pressocchè nullo).
  5. “La mancanza di indicatori di risultato” convenzionalmente stabiliti.

Le intenzioni del sottosegretario Reggi, al di là di singole scelte discutibili (e di cui si aspetta comunque la versione definitiva per una valutazione più complessiva), possono ben essere lette – penso – come espressione della volontà sia di restituire alla Scuola Istituzione un ruolo attivo e incisivo, sia di “ri-costruire un equilibrio tra individuo/libertà e organizzazione/regole, oggi sbilanciato sul modello individualistico” (ancora parole di Romei: sempre del 2000!).
Ma occorre che siano fugati gli equivoci e che la discussione sia serena e coraggiosa.
Non siamo interessati a una nuova delusione.

 

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