Ancora un articolo che compie un’operazione verità sui tanti luoghi comuni su cui fa leva la retorica del Governo.
Puntuale come l’avvicendarsi delle stagioni, si appresta ad abbattersi sulla scuola italiana l’ennesima alluvione di tagli lineari mascherata da riforma epocale.
Non è sempre facile diradare la cortina fumogena di una retorica governativa che, a suon slogan come “efficienza”, “taglio agli sprechi”, “punire i fannulloni”, “allinearci all’Europa”, intende additare all’opinione pubblica la classe docente come una piccola casta di fannulloni arretrati, non di rado ignoranti e anacronisticamente attaccati ai loro micro-privilegi.
Non sempre l’informazione nel recente passato è stata all’altezza del compito. Come non ricordare che mentre marciava la devastante riforma Gelmini (8 miliardi di tagli) si persero mesi a sproloquiare di grembiulini, voto in condotta, maestra unica e simili quisquilie.
Oggi, in tempo di renzismo rampante, smontare la retorica governativa pare ancora più difficile.
Eppure basterebbe andare a guardarsi qualche dato reale per rendersi conto che le roboanti linee guida della recentemente proclamata rivoluzione renziana puzzano di vecchio e sono condite di falso.
Partiamo dalle cose buone, almeno sulla carta.
Si dice basta, finalmente, alla teoria carnevalesca dei sistemi di abilitazione (vecchi e nuovi concorsi, ex SSIS, corsi abilitanti speciali, TFA, PAS…) che hanno creato percorsi con livelli formativi disomogenei e dato origine alle infinite guerre tra poveri che caratterizzano il mondo della scuola precaria. Ora si cambia tutto, si dice… Peccato che la proposta di corso di laurea magistrale biennale più un anno di tirocinio formativo attivo di cui si va parlando risalga al DM 249/2010 (ultimo governo Berlusconi, ministro Gelmini) approvato dopo l’improvvisa chiusura delle SSIS. Vale la pena di citare l’art. 15 comma 27 del suddetto decreto: “Le università adeguano i regolamenti didattici di ateneo alle disposizioni del presente decreto in modo da assicurare che i relativi corsi siano attivati a partire dall’anno accademico 2011/2012.” Nel 2014, ancora in piena, pasticciatissima, fase transitoria, ci vengono a spacciare il vecchio per nuovo.
Per quanto riguarda l’orario da portare a 36 ore, si tratta di una provocazione grottesca peggiorativa rispetto al vecchio tentativo dell’ex ministro Profumo di innalzare l’orario di cattedra (non di lavoro effettivo) di un terzo (oggi lo si vuole raddoppiare) a stipendio invariato, in violazione (l’ennesima) di un contratto non rinnovato, tra l’altro, da ben 7 anni. E’ ovvio che simili proposte strizzano l’occhio ai luoghi comuni diffusi nell’opinione pubblica: gli insegnanti italiani lavorano poco (“lavoro part time molto ben retribuito” – copyright del prof. Renato Brunetta) e godono di vacanze molto lunghe. Sono pagati meno della media europea, ma hanno un carico di lavoro inferiore, e via dicendo.
Basterebbe dare uno sguardo alle ricerche svolte da Eurydice, il network europeo che mette a confronto i sistemi scolastici dei Paesi UE per sfatare qualcuno di questi luoghi clichés.
Non è immediato riuscire a fare un raffronto relativo ai carichi di lavoro, in quanto nei diversi paesi UE vigono definizioni legali della materia molto differenziate: numero di ore di lezione, ore di lavoro complessivo (che include sia le ore di presenza a scuole che quelle di lavoro svolte a casa), numero di ore o giorni di presenza a scuola per tutte le attività, etc. Volendo perderci un po’ di tempo si avrebbe la sorpresa di scoprire che i docenti italiani hanno un carico settimanale di ore di lezione in classe superiore alla media europea sia nella scuola primaria (22 contro 19,6) che nella secondaria superiore (18 contro 16,3) e praticamente identico nella secondaria inferiore (18 contro 18,1).
Se poi vogliamo fare un confronto più diretto con i nostri virtuosi cugini tedeschi, vale la pena di dare un’occhiata al documentato articolo di Antonio Cassarà su Patria del dicembre 2012.
Prendendo l’esempio della Germania, vediamo che in quel Paese gli insegnanti lavorerebbero 40 ore settimanali che “confrontate alle 18 italiane, griderebbero vendetta. Se le une e le altre fossero vere, naturalmente. Innanzi tutto in nessun Paese europeo, Italia esclusa, le ore di lezione sono di 60 minuti”. In Belgio e in Inghilterra sono di 50 minuti, in Germania sono di 45. Per cui quando si dice che gli insegnanti tedeschi fanno 25 ore di lezione settimanali, si deve ricordare che in classe ci stanno 18 ore e 45 minuti”. Tre quarti d’ora in più di noi pigri docenti italici.
In Germania l’orario contrattuale di lavoro “include tutte, ma proprio tutte, le attività necessarie al funzionamento della vita scolastica. Oltre all’insegnamento vero e proprio, fanno contrattualmente parte dell’orario di lavoro degli insegnanti la formazione e l’aggiornamento individuali; ogni genere di incontri collegiali; le pause; la preparazione delle lezioni; la preparazione e la correzione dei test; la partecipazione agli esami; la correzione delle prove di esame; l’organizzazione e la partecipazione alle feste scolastiche, alle uscite didattiche, ai viaggi di istruzione, ai tornei sportivi e agli scambi internazionali; l’accoglienza; la stesura delle pagelle; i contatti con le famiglie e con il territorio.”
Accettare le 36 ore, dunque? D’accordo, ma intese come? Se è per allinearsi all’Europa, metto la firma sulle 40 per un contratto fotocopia rispetto a quello tedesco. Da domani.
Tra l’altro, spiega ancora Cassarà, un insegnante al primo incarico in una Realschule della Renania-Palatinato (gli stipendi in Germania variano da länder a länder) percepisce un compenso di 3.040 euro netti. Siamo un po’ lontani da 1330 circa di un insegnante italiano di scuola secondaria al primo decennio di ruolo.
Si dirà che i lunghi periodi di vacanza compensano questi svantaggi. Ma è proprio vero che in Europa l’anno scolastico dura più a lungo? Sulla carta la scuola tedesca gode di sei settimane di ferie più le festività a fronte dei 32 giorni di quella italiana, ma “in realtà i giorni di lavoro effettivi per gli insegnanti tedeschi sono, come per il Belgio e molti altri Paesi europei, intorno ai 180 all’anno contro i 206 italiani”. Ma guarda…
Quanto alla riduzione a 4 del numero di anni della durata della scuola secondaria superiore, il sottosegretario Roberto Reggi parla di “scelta europea”, espressione che, al pari dell’ipse dixit, si usa ormai per troncare ogni tipo di ragionamento. Se poi tale “scelta europea” si basi su riflessioni di ordine pedagogico e didattico o, piuttosto, sul mero calcolo ragionieristico dei risparmi, non pare essere argomento degno di dibattito. Bene (cioè male). Chiediamoci almeno se quella evocata da Reggi sia effettivamente una scelta europea.
Secondo Eurydice, su 27 stati della UE, 12 sono quelli in cui il ciclo di studi si conclude a 19 anni (tra cui, accanto all’Italia, le virtuose Germania, Svezia e Danimarca, tanto per dire), 11 quelli in cui si conclude a 18 anni (tra cui, se vogliamo continuare nel giochetto, troviamo Grecia, Portogallo Cipro e Spagna), 3 quelli in cui è prevista una doppia possibilità di uscita (17/18 – 19 anni) a seconda che si proseguano o meno gli studi in un percorso universitario (la Finlandia delle “scuole migliori del mondo”, Ungheria, Romania). Quindi, qual è , se esiste, l’Europa a cui ci vogliamo allineare?
Curiosamente non si parla mai di “scelte europee” in merito a spesa per l’istruzione in rapporto al PIL o in rapporto alla spesa pubblica, dove l’Italia, con il 9,05% a fronte del 10,84 della media europea (per non parlare del 15,05 della Danimarca) risulta tristemente ultima in classifica.
Da quando al MIUR ai pedagogisti sono subentrati i ragionieri la scuola italiana si è regalata classi sovraffollate, una riduzione delle ore di lezione e una poderosa decurtazione del fondo di istituto con il quale, per riprendere uno slogan oggi in voga, “si da di più a chi fa di più” (collaborazione con la dirigenza, commissioni, funzioni strumentali…). Cosa che, contrariamente a quanto si vuole far intendere, avviene già oggi, anche se, in molti casi, si dovrebbe parlare di mance più che di retribuzioni. Oggi i ragionieri si apprestano ad ottenere nuovi cospicui risparmi sforbiciando un anno di scuola superiore e spostando le supplenze superiori ai 15 giorni per la scuola secondaria e ai 5 per la primaria e l’infanzia a carico dei docenti interni (le altre lo sono già , ma vengono retribuite se eccedenti l’orario contrattuale). In attesa di vedere quale progetto pedagogico (se c’è) sta alla base della riduzione della durata del ciclo di istruzione (che andrebbe semmai ripensato in termini complessivi) , ci si può già ora domandare se seriamente si pensa che tappare i buchi di una lunga assenza con la frenetica rotazione del personale interno occasionalmente non in aula abbia un’utilità didattica maggiore della chiamata di un supplente esterno che alle classi scoperte può dedicarsi interamente? Una simile idea rivela disonestà intellettuale o ignoranza totale del funzionamento della scuola.
Ma i ragionieri del MIUR evidentemente ritengono che insegnare sia un po’ come timbrare i francobolli: aumentando le ore di attività si aumenta la quantità di prodotto in maniera direttamente proporzionale. L’apprendimento dei ragazzi avverrebbe, invece, in maniera inversamente proporzionale: apprendi di più se studi un anno in meno. Chissà che sorpresa quando si accorgeranno che, per far fronte al maggior carico di lavoro e al maggior numero di studenti (che già oggi può superare il numero di 200 per docente), avremo un insegnamento più standardizzato e tanti bei test a crocette (sul modello INVALSI che tanto piace ai burocrati). Altro che insegnamento individualizzato!
Il sottosegretario Reggi, aprendo a un futuro momento di consultazione generale sulla proposta governativa, si augura che “venga accolta senza pregiudizi”. Potrebbe ben esserlo se non si trattasse di una proposta arrogante, che ai peggiori pregiudizi sembra invece voler strizzare maliziosamente l’occhio. Se si partisse da una lettura seria, onesta e documentata del panorama della scuola italiana ed europea, un confronto costruttivo con il mondo della scuola, che lo chiede da anni, non mancherebbe di certo. Ma questo richiederebbe, per esempio, di porre nei luoghi di responsabilità persone con una profonda conoscenza del mondo dell’istruzione, delle sue dinamiche, dei suoi problemi, dei suoi punti di forza e delle sue sofferenze. E con una reale e rispettosa disponibilità al dialogo. Tutto il resto è propaganda.
“Non ho risposte a tutto” – ricorda Reggi all’Unità – “ sono un ingegnere, ho in mente un modello che mutua da altre esperienze di tipo aziendale”. Ecco, appunto. Non mi pare un buon modo per cominciare.