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Tfa, costi tutt’altro che contenuti

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Per partecipare alla prova pre-selettiva gli atenei chiedono tra i 100 e i 150 euro. Tra i 2.200 fino a più di 3.000 euro per la frequenza. Non sono previste esenzioni o riduzioni per casi particolari o per chi appartiene a famiglie non abbienti. Le rette ripercorrono quelle delle Ssis: solo che il titolo conseguito non è al momento equiparabile.
Come annunciato dal ministero dell’Istruzione, nella giornata del 3 maggio tutti gli atenei incaricati dallo stesso Dicastero di organizzare i Tirocini formativi attivi, utili a conseguire l’abilitazione all’insegnamento nella scuola secondaria, hanno pubblicato sui rispettivi siti ufficiali ai bandi relativi alla selezione, alle modalità di organizzazione, iscrizione e svolgimento dei vari corsi di formazione afferenti alle 40 classi di concorso prescelte. Diciamo subito che da una prima ricognizione dei bandi quel che balza agli occhi sono i costi. Tutt’altro che contenuti. Come invece era stato chiesto più volte dai sindacati e dai diretti interessati.
Già la pre-selezione comporta un contributo che nella grande maggioranza dei casi è stato fissato tra i 100 e i 130 euro. In alcuni casi, Catanzaro e Bergamo, per sedersi al tavolo dei 60 quiz a risposta multipla (tra il 6 ed il 31 luglio, a seconda delle discipline) vengono chieste addirittura 150 euro. Superando addirittura i costi per partecipare alle selezioni per accedere ai corsi organizzati nelle università private.
Anche per quanto riguarda i costi della frequenza di corsi, per chi supererà le pre-selezioni, c’è poco da ridere: in prevalenza le università hanno chiesto attorno ai 2.500. Alcune, fortunatamente poche, hanno anche raggiunto e superato i 3.000 euro. Quasi sempre viene chiesto ai corsisti di pagare in corrispondenza dell’avvio dei corsi la metà o anche meno dell’importo. La parte rimanente dovrà essere saldata (in un’unica soluzione) nella parte terminale del corso.
Scorrendo i vari bandi si scopre che non esistono differenzazioni sociali e personali: tutti i corsisti vengono messi sullo stesso piano. Un giovane proveniente da realtà territoriali e familiari disagiate, in pratica, viene messo sullo stesso piano di un coetaneo che vive in una città ed è appartenente ad un nucleo familiare abbiente. E questa, francamente, poiché elude la norma costituzionale che impone di mettere tutti i cittadini sullo stesso piano, ci sembra un’omissione forse più grave dell’esosità dei costi di accesso e di frequenza.
Tornando alle rette, è vero che si tratta di cifre vicine a quelle chieste in occasione delle Ssis. Tuttavia, mentre queste ultime garantivano una formazione prettamente accademica, oltre che l’accesso alle Graduatorie permanenti (poi diventate ad esaurimento), per quanto riguarda i Tfa rimane davvero poco comprensibile la richiesta di quote così elevate. Anche perché ad oggi, per dirla tutta, ancora non si comprende pianamente la spendibilità del titolo: coloro che termineranno positivamente i corsi, ad esempio, hanno la certezza di essere inseriti in una graduatoria pre-ruolo? E ancora: chi si abiliterà attraverso questo percorso dovrà comunque partecipare ad un concorso pubblico per tentare la “carta” dell’assunzione come insegnante?
Certo, non saranno 3.000 euro a fermare il sogno di un giovane nel diventare insegnante. Però appare francamente incomprensibile che gli si debba chiedere così tanti soldi, quando sino a qualche anno fa per portare a casa l’abilitazione bastava aver lavorato almeno 360 giorni e frequentato positivamente un corso “riservato”. Senza alcuna spesa a carico del corsista, tranne un piccolo contributo (inferiore alle 100.000 lire, quindi a 50 euro) da corrispondere in occasione dell’esame finale. Sono passati 12 anni, ma sembra un secolo.
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