L’elezione alla presidenza delle regioni Piemonte e Veneto di due esponenti della Lega Nord segna, secondo molti osservatori, il definitivo passaggio di questa forza politica dalla fase iniziale di “movimento” a quella di “istituzione”, per usare la nota distinzione proposta dal sociologo Francesco Alberoni.
Non è casuale che nessuno parli più di “secessione”, la parola d’ordine della Lega delle origini, e che una certa mitologia con tratti neopagani (l’acqua del dio Po, una certa ritualità neoceltica) sia stata sostituita con la valorizzazione delle radici cristiane della cultura popolare: di quel popolo, concepito come grandi masse, che la Lega ha inteso, e dopo il successo elettorale intende ancor più rappresentare in contrapposizione al potere burocratico e centralistico della (ex) “Roma ladrona” e a quello della grande industria. Un popolo di agricoltori e di piccole e piccolissime imprese che nel Nord ha un vasto radicamento sociale e che è sensibile alle nuove parole d’ordine della Lega: federalismo fiscale (meno tasse), più sicurezza, lotta all’immigrazione clandestina e regolamentazione di quella regolare, più attenzione per la cultura locale (anche a scuola), minor peso delle procedure e degli apparati burocratici.
In questa tendenza post-movimentista e neoistituzionalista della Lega Nord (ben riconoscibile nell’azione del ministro Roberto Maroni) si nota anche una certa affinità con le posizioni che stanno emergendo – per esempio in Gran Bretagna, ma anche in altri Paesi europei – all’interno dei partiti conservatori, alla ricerca di nuove risposte alla crisi del welfare State e del riformismo di tradizione socialdemocratica