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Decreto Brunetta, discrezionalità e intervento autoritario

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Tutta la manovra del governo muove da un’ipotesi ideologica:la politica si deve rafforzare anche nella gestione delle amministrazioni. Così gli effetti delle misure introdotte con la legge 15 sono destinati a incidere sulle condizioni di lavoro Cosa c’è scritto veramente nel decreto Brunetta? Leggendo i contenuti e i possibili effetti sul mondo del lavoro e sulle pubbliche amministrazioni della manovra del governo, si scopre che la campagna politica e mediatica che ancora oggi fa del provvedimento lo strumento “principe” per la lotta antifannulloni, per i licenziamenti e il merito, produce effetti devastanti verso il lavoro e nulli sull’efficacia del settore. Tutta la manovra muove da un’ipotesi ideologica: la politica si deve rafforzare anche nella gestione delle amministrazioni. La dirigenza deve essere strumento “obbligato” di questa riappropriazione. Il lavoro pubblico viene piegato a quest’operazione e contrariamente a quanto avviene nel “diritto del lavoro”, nel rapporto tra lavoratore e “datore di lavoro” nel settore pubblico quello che viene tutelato è il “datore di lavoro politico” e, per esso, la dirigenza, che comunque va “obbligata a ottemperare le decisioni della politica, a pena di sanzione”. È da quest’analisi di chiaro tenore autoritario che nasce la manovra e i provvedimenti legislativi. Così gli effetti delle misure introdotte con la legge 15/2009 e con il decreto attuativo sono destinati a incidere fortemente sulle condizioni di lavoro, sulle retribuzioni e anche sui diritti dei 3 milioni di lavoratori e lavoratrici dipendenti delle pubbliche amministrazioni. Il primato del merito Proviamo a entrare dentro le misure, a vederne il filo conduttore, a ipotizzarne i risultati. Il primo tema da affrontare è quello sbandierato del primato del merito e del valore salvifico della valutazione. Sin dall’inizio, su questo tema si è centrata molto l’attenzione del governo. La valutazione e il merito sono diventate alcune delle cifre fondamentali della manovra. In realtà, cosa c’è? Una definizione unilaterale da parte della politica degli obiettivi delle amministrazioni, con la conseguente messa in campo di strumenti per l’apprezzamento delle performance e la conseguente valutazione dei risultati. Si costituisce una commissione centrale per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche da un costo di 4 milioni di euro, nominata su proposta del ministro per la Pubblica amministrazione, con il parere favorevole del Parlamento. Si costruisce così ex novo un sistema di valutazione unico, centralizzato, sottomesso alla politica, gerarchizzato, che nega in nome della centralità della funzione amministrativa il pluralismo del sistema dei servizi, a partire da quelli territoriali o sanitari o delle stesse agenzie (pure osannate dal governo). Il compito della commissione è tra l’altro quello di soprintendere all’attività di valutazione in tutte le realtà, informando di tutto ciò il ministro per l’Attuazione del programma. In tutte le strutture delle pubbliche amministrazioni, a esclusione delle scuole, si costituiscono organismi “indipendenti” di valutazione delle performance, nominati sempre dal vertice politico amministrativo, che debbono rispondere agli indirizzi della commissione centrale. D’ora in avanti, sulla base del lavoro di questi organismi, i dirigenti nelle singole realtà lavorative provvederannno a valutare “in totale autonomia” i lavoratori. Il risultato della valutazione è già definito a monte. Si compila una graduatoria delle valutazioni individuali del personale e della dirigenza. I dipendenti vengono suddivisi per legge in tre fasce definite dalla legge (25 per cento; 50 per cento; 25 per cento), alle quali corrisponde una quota di salario accessorio (rispettivamente, 50 per cento; 50 per cento; 0). Qui esiste un primo punto: questo complesso, faraonico e costoso meccanismo, subordinato alla politica, sia nella composizione, sia nella definizione degli obiettivi, sia conseguentemente nella valutazione dei risultati, si applica nei fatti a una parte minoritaria di lavoratori pubblici, almeno nell’indicazione delle fasce di valutazione. Dalle fasce sono esclusi il sistema delle Regioni, delle autonomie locali, della sanità, i ricercatori, le piccole amministrazioni. Sono esclusi dalle fasce, ma non dal principio che ne costituisce il riferimento. Tutto ciò ha delle conseguenze “gravi” sulle retribuzioni dei lavoratori. Innanzitutto, si stabilisce con questo provvedimento che programmaticamente il 25 per cento dei lavoratori ha una produttività pari a 0. Come ciò possa essere uno stimolo per far crescere la produttività collettiva, è un mistero. Quindi, per legge, ci sarà per almeno un quarto dei lavoratori una riduzione di retribuzione. Ma tutto ciò non solo per il futuro. Vengono infatti disdettati per legge tutti i contratti integrativi “vigenti” (con un valore retroattivo illegittimo); non sono più applicabili dal 2011 o dal 2012. Si debbono adeguare ai contenuti della legge e in particolare delle risultanze del sistema di valutazione che riguarda vari istituti contrattuali: fasce, carriera, progressione orizzontale. Si stabilisce poi che una quota “prevalente” di ciò che oggi costituisce il salario accessorio (fino al 30 per cento della retribuzione), definita anche nel contratto nazionale, cambia per legge titolo e diviene remunerazione della produttività individuale (sempre sulla base delle fasce). Infine, si stabilisce che, in caso di mancato accordo decentrato, le amministrazioni comunque agiscono unilateralmente sulle stesse materie. Tutto ciò significa la riduzione programmata delle retribuzioni in essere, la negazione della contrattazione decentrata già avvenuta, la lesione del contratto nazionale e, dulcis in fundo, la definizione unilaterale di quote importanti di retribuzione. Cosa c’entra tutto ciò con l’efficacia delle amministrazioni pubbliche? Il ritorno alla legificazione Il secondo tema è quello della contrattazione e del ritorno alla legificazione del rapporto di lavoro: il diritto del lavoro nelle pubbliche amministrazioni torna a essere profondamente diverso da quello del lavoro privato (si rischia così di tornare al 1957). Il primato della politica e per essa della legge, mette pesantemente in discussione il ruolo della contrattazione. Il livello nazionale della stessa è fortemente lesionato da almeno 4 previsioni: • una lettura congiunta dell’accordo separato del 22 gennaio, dell’intesa del 30 aprile relativa al pubblico impiego e del decreto Brunetta, porta alla forte limitazione dei contenuti della contrattazione. Delle due l’una: o il decreto cambia l’accordo separato e allora i firmatari dovrebbero protestare (fino a oggi ciò non è successo), o fornisce l’interpretazione autentica dell’accordo separato e allora i firmatari si preparano a osannare il decreto, così come hanno fatto per l’accordo stesso. Siamo in attesa di sapere; • nell’accordo separato si affermava che le regole generali che presiedono al rinnovo dei contratti di lavoro, già negative, perché impediscono l’incremento delle retribuzioni, nel pubblico si accompagnano alla previsione che il riferimento all’Ipca avverrà “compatibilmente con i vincoli di finanza pubblica”. E comunque su una retribuzione ridotta fino al 30 per cento. Già nella bozza di legge finanziaria per il 2009, infatti, non vi sono le risorse per i contratti e nemmeno per finanziare l’Ipca; • la negazione della titolarità della contrattazione su temi fondamentali per le condizioni di lavoro nelle pubbliche amministrazioni: nessuna relazione sindacale, espropriazione dell’intervento sull’organizzazione del lavoro, definizione per legge delle carriere e delle fasce di valutazione sulla produttività, potere d’intervento della politica nel concedere unilateralmente le somme previste dalle leggi finanziarie anche senza accordo contrattuale; • la previsione di una struttura dei ccnl basata su 4 comparti di contrattazione, ognuno dei quali contiene più categorie, oggi regolate da specifici contratti collettivi, che nei fatti rende molto difficile la definizione di nuovi contratti. Ma esiste un altro punto ancora più grave. La norma contenuta nell’articolo 1 della legge 15 prevede un sistema generalizzato di deroghe ai contratti da parte di leggi nazionali e regionali, regolamenti e statuti. La politica può definire così misure a favore di lavoratori o di gruppi di lavoratori. I contratti non possono più intervenirvi. Le deroghe per legge divengono sistema, con buona pace del rigore di spesa, sancendo il trionfo della politica clientelare. Mentre l’accordo separato del 22 gennaio prevede nel lavoro privato che i contratti decentrati possano derogare i contratti nazionali, nel settore pubblico si afferma che i contratti non possono derogare la legge: esattamente l’opposto. Il paradosso è che la convergenza tra lavoro pubblico e lavoro privato era uno dei principi definiti dalla legge. Con questa norma della legge 15, dunque, invece di costruire delle “convergenze” ci si muove per la rottura del mondo del lavoro pubblico da quello privato. Costituzionalità del decreto Terzo tema: la costituzionalità del decreto. La negazione sistematica di quello che oggi assume valore di principio di sistema, “l’autonomia funzionale e il pluralismo dei livelli di governo”, rappresenta non solo un momento di forte criticità dal punto di vista istituzionale, ma è la ragione stessa dell’inefficacia della legge e del decreto delegato. Il centralismo di cui è pervaso il provvedimento è anche la causa del suo effetto limitato: la norma scaturente dall’intesa in Conferenza unificata esclude dal sistema specifico della premialità (le fasce), ma non dal principio ispiratore, circa 7.200 Comuni, più evidentemente le Regioni, le Asl e le altre autonomie locali. Le Regioni e gli enti locali hanno mantenuto forti punti di dissenso politico sul decreto, basati sulla contraddizione tra centralismo praticato e federalismo predicato. Occorre però dire che mentre il sistema regionale e locale ha cercato di ristabilire almeno “parzialmente” l’equilibrio scaturente dalla previsione costituzionale dell’autonomia di Regioni ed enti locali, rimane inalterato tutto l’impiantodi ripubblicizzazione del rapporto di lavoro e di decontrattualizzazione, che chiaramente si applica in tutte le pubbliche amministrazioni. Insomma: l’incostituzionalità della previsione normativa, con questo testo sarebbe palpabile. Altro motivo d’incostituzionalità è nella manovra in tema di sistema di rappresentatività, che verrebbe, nelle intenzioni del governo, bloccato in attesa della revisione dei comparti, senza che la legge 15 lo prevedesse. In particolare, con una lettura discutibile del provvedimento, il governo intenderebbe bloccare le elezioni per il rinnovo delle Rsu, a partire da quelle della scuola, che si debbono svolgere a dicembre 2009, non mettendo certo al riparo quelle che si svolgeranno l’anno prossimo. Si tratterebbe di una grave e profonda modifica dell’impianto democratico della “seconda privatizzazione del rapporto di lavoro” (come la definì il compianto Massimo D’Antona). Una norma scritta male e comunque fuori delega (noi comunque procederemo a far votare i lavoratori e le lavoratrici della scuola), che – se possibile – supera in negatività la stessa legge, accentuando la voglia regolatoria, centralistica e legislativa, come dimostra anche l’ultima polemica in merito alla stessa abolizione-ripristino della famosa “ora d’aria” (la reperibilità in caso di malattia), che con una norma del decreto diviene d’esclusiva competenza del ministro della Pubblica amministrazione. In sostanza, si tratta della “summa ideologica” di quella campagna mediatica contro il lavoro pubblico fatta di “fannullonismo”, licenziamenti, sanzioni disciplinari ecc. Ma nulla più sul piano delle misure concrete per l’efficacia delle pubbliche amministrazioni. In tema di dirigenza e di sanzioni disciplinari, poi, si torna anche in questo caso al primato della discrezionalità (per i dirigenti) e a una previsione illegittima, rispetto alla quale i licenziamenti sarebbero senza “appello”. Conclusioni Ora spetta a noi decidere come contrastare questa manovra. A partire dalle piattaforme per i rinnovi, occorrerà riconquistare uno spazio contrattuale che con il decreto si vuole comprimere, fino ad annullarlo, senza adeguarci alla fase. Bisognerà con la contrattazione provare a far saltare l’impianto contrattuale e di diritto del lavoro conseguente al disegno espresso dal decreto legislativo. Consapevoli che la penalizzazione del lavoro non è un valore positivo per una nuova qualità delle amministrazioni pubbliche. Qualità dell’intervento pubblico e qualità del lavoro stanno insieme. Negare la qualità del lavoro significa nei fatti volere un’amministrazione pubblica sottomessa alla politica, che quindi agisce in modo discrezionale. Per parte nostra, siamo disponibili a tutte le forme di valutazione, anche quelle individuali, che vedano partecipi i lavoratori e siano basate sulle relazioni sindacali previste dai contratti collettivi, come già avvenuto. Siamo pronti – e lo abbiamo dimostrato con la firma del memorandum sulle pubbliche amministrazioni – a misurarci sull’efficienza e l’efficacia dell’agire pubblico. Non siamo invece disponibili a tutto ciò che sa di discrezionalità e intervento autoritario. * Coordinatore dipartimento Settori pubblici CGIL Fonte: rassegna.it

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