Il pericolo che viene dall’estero
di Antonio Polito Silvio Berlusconi, ieri a Radio anch’io, mi ha detto che prima o poi, in privato, gli dovrò chiedere scusa. Gli ho chiesto perché e lui ha risposto: «Per i servizi malevoli del suo giornale sulle nostre giovani parlamentari».
Le pretese dei politici sono sorprendenti. Forse il premier pensa che i giornali debbano fare servizi benevoli (analoghe pretese le ho sentite dai vertici del Pd). Non è il nostro mestiere, né la nostra vocazione: per quello ci sono gli uffici stampa e gli house organ. Di articoli benevoli ce ne sono già abbastanza. E per gli standard europei, basta guardare a Londra, dove i giornali stanno buttando giù a picconate un governo (di sinistra).
Berlusconi si aspetta di vincere le elezioni, e francamente ce lo aspettiamo anche noi. Lui stesso ha fissato l’asticella sopra il 40, e l’apoteosi se raggiunge il 50 sommato alla Lega. Ma non è che se prende il 38 o il 39 sarà andato male. Ciò che davvero conta per il Pdl è staccare di 12-13 punti il Pd (obiettivo possibile) e raccogliere tre milioni di preferenze per Berlusconi (obiettivo facile, se si pensa che alle passate europee, in un momento di bassa marea, ne prese due milioni e 300mila).
Eppure per gli italiani ciò che davvero conterà non è l’entità della vittoria, ma l’uso che il premier ne farà. Parliamoci chiaro. Fin qui il governo se l’era cavata abbastanza bene. Ottima performance a Napoli e all’Aquila; buona performance sul 25 aprile, giorno di riconciliazione con la Liberazione; performance sufficiente sulla crisi, seppure scegliendo la linea del quieta non movere, meno si fa e meglio è, apriamo l’ombrello e aspettiamo che passi la burrasca. Le emergenze hanno nascosto abbastanza bene agli occhi degli italiani la sostanziale rinuncia a un programma di riforme radicali, che pure si sarebbero potute sperare da una maggioranza parlamentare così schiacciante.
Berlusconi, appena un mese fa, sembrava dunque avviato a una campagna elettorale finalmente «normale», fondata sulla sua azione di governo, capace per la prima volta di allargare il proprio consenso oltre i confini del berlusconismo. Ma il caso-Noemi ha cambiato questa equazione, e credo che il premier l’abbia per questo sofferto più di quanto non dia a vedere. L’equazione è cambiata da due punti di vista.
Il primo riguarda il rapporto con gli avversari interni alla sua coalizione. È chiaro che negli ultimi giorni della campagna elettorale Berlusconi ha dovuto scientemente sacrificare un paio di punti percentuali alla Lega per garantirsene il sostegno. La Lega, si sa, è forte di suo nel centrodestra. Talvolta sembra davvero aver in mano le chiavi del governo, come dice Casini. Ma il premier l’aveva presa di petto, nei mesi scorsi, quando esagerava. Il clima ora è cambiato. Berlusconi ha dovuto promettere a Bossi il Veneto e forse anche un’altra regione del nord per l’anno prossimo.
Il risultato elettorale lo vincolerà ancora di più, perché in Veneto la Lega è destinata a scavalcare alle europee per la prima volta il Pdl e il suo risultato generale sarà in linea con l’ondata xenofoba e populista che abbiamo già visto in azione in Olanda. L’altro nemico interno è Fini. Il cui smarcamento era cominciato prima del caso Noemi (accendendo sospetti nell’entourage del Cavaliere: non è che sapeva qualcosa?) Ma a maggior ragione lo smarcamento continuerà ora. La «spina nel fianco» (ben più puntuta e dolorosa di Follini) resterà lì, qualsiasi sia il successo elettorale del Pdl.
Il problema politico più grave che l’ultimo mese ha aperto è però quello dello standing internazionale del premier. Al quale nessuno toglie dalla testa che in giro per l’Europa ci sia qualcuno seriamente intenzionato a sfruttare fino in fondo le sue debolezze personali per colpirlo nella figura pubblica. Lui solo sa se il catalogo di quelle debolezze si è esaurito. Ma, se non si fosse esaurito, si capisce il nervosismo. Un premier molto forte all’interno e molto debole all’estero ha dunque bisogno di un forte successo personale alle elezioni europee innanzitutto per dissuadere i suoi nemici dalla tentazione di far ripartire il can can un giorno dopo il voto.
Il risultato di questa situazione è che la legislatura, che sembrava avviata su canali del tutto nuovi («vedrete, questa volta è diverso, questa volta sarà il premier di tutti gli italiani, questa volta sarà lo statista e il padre della Terza Repubblica») sta scivolando su binari molto vecchi. Il premier sente odore di ’94, e come d’incanto, o per reazione se volete, è ridiventato il Caimano. Se continua così, rischia di non poter far altro che combattere un infinito corpo a corpo, e il governare passerà in secondo piano. Il che è un problema per il Paese, che ha un disperato bisogno di essere governato, ma anche per lui.
Tra i suoi fedelissimi c’è addirittura chi teme che una vittoria troppo semplice alle europee possa peggiorare le cose, nascondere la polvere sotto il tappeto, convincerlo che tutto va bene madama la marchesa. E invece i problemi sono tanti: il Pdl non è radicato sul territorio come la Lega, non ha alcuna forma di democrazia interna e vive commissariato su tutto il territorio nazionale, le seconde file tendono a litigare tra di loro appena lui volta le spalle, quelli di An fanno i comizi per conto loro e nella circoscrizione Centro Italia possono pure prendere più eletti dell’ex Forza Italia, Alemanno porta voti e la Moratti no, in Sicilia sono ai materassi e in Veneto ci saranno presto.
Andando avanti di questo passo, l’invincibile macchina da guerra che doveva nascere col partito unico continuerà a pesare esclusivamente sulle spalle del Cavaliere. Che, come vedremo lunedì, sono ancora sorprendentemente robuste. Ma, nota icasticamente l’Economist, «l’effetto è di aver reso la destra italiana dipendente dal carisma (e dalla longevità) di Mr. Berlusconi, un uomo di settantadue anni che è stato malato di cancro e che porta un peacemaker».
Scongiuri a parte, ecco dov’è l’anomalia italiana: una lunga campagna elettorale che dura da quindici anni e non finisce mai, e in cui a Berlusconi non basta vincere mai.