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Quando gli italiani “poveri” erano discriminati perché non conoscevano l’italiano. Possibile che non si abbia memoria di niente?

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Da SiciliaInformazioni.com:La scuola non esce dalla cronaca. Le proteste, gli scioperi, le invettive, le bugie, le stupidaggini, l’incompetenza: tutto congiura contro un’istituzione che dovrebbe stare in cima ai pensieri di chiunque, dall’idraulico al presidente del Consiglio, ed invece è oggetto di contesa, di polemiche che trasudano veleni, di un corpo a corpo che sembra studiato a tavolino per distruggerla.

L’ultima, in ordine di tempo, è la trovata leghista con la mozione che impegna il governo ad istituire classi di inserimento per bambini e ragazzi che non hanno padronanza della lingua italiana. Un modo elegante per rimettere in carreggiata le classi differenziali o speciali, quelle che un tempo bandivano dal consesso civile i poveri di reddito e di cultura.

Chi ha letto o vissuto ciò che succedeva negli anni cinquanta e una buona parte degli anni sessanta in Italia sa bene a che cosa ci riferiamo, ai bambini delle famiglie italiane meno abbienti, i quali non sapevano parlare né scrivere in italiano ed erano perciò giudicati incapaci, ritardati, comunque poco volenterosi e quindi un peso di cui liberarsi al più presto nell’interesse della scuola, o meglio della classe che aveva da rispettare un corso di studio efficace e spedito.

Per anni ci siamo sentiti ripetere, anche da parte di insegnanti competenti, che alcuni alunni avrebbero dovuto essere scoraggiati dalla frequentazione, non essendo dotati intellettualmente. Una questione di attitudine, non di etnia o di razza, quindi niente di scandaloso.

Si trattava di un razzismo cultura, il peggiore di tutti, e di una colossale ignoranza. Non capivano che quei ragazzi, emarginati e trattati alla stessa stregua di un povero down, avevano un solo handicap: a casa loro avevano parlato solo in dialetto, e per giunta malamente. Quando arrivavano a scuola e cominciavano a frequentare non capivano nulla o quasi e quando c’era da scrivere erano dietro a tutti e venivano perciò rimproverati aspramente, puniti, scoraggiati.

Insomma la discriminante era rappresentata dalla padronanza della lingua italiana. I figli delle famiglie bene erano bravi e volenterosi, competenti e giudiziosi, i figli dei braccianti o degli operai edili, tanto per fare qualche esempio, era meglio che rimanessero a casa. E quando qualcuno obiettava e faceva notare che quelli parlavano un’altra lingua, il loro dialetto, e che in più trascorrevano parte della loro giornata facendo dei piccoli lavori, aiutando i genitori o addirittura in fabbrica, nei campi, veniva risposto che quando c’è volontà si supera ogni cosa, perciò chi non è dotato o manca di volontà, qualunque sia la condizione economica o culturale della famiglia, fa il suo dovere e prima o poi finisce con l’emergere. Pretendevano piccoli eroi e non bambini normali, cui mancava – e manca ancora oggi – un compiuto senso di responsabilità, passioni ed impegni che si acquisiscono con gli anni e una personalità matura.

Queste becere credenze scolastiche hanno rovinato la vita di milioni di ragazzi italiani cresciuti senza arte né parte e costretti a vivere una vita grama, spesso fuori dal paese d’origine.

Ma tutto questo, la nostra storia recente, non ha insegnato niente a nessuno. Un problema didattico, di organizzazione di corsi di supporto o simile, è diventato un altro strumento per lanciare l’ennesimo messaggio rassicurante alle famiglie bene del nostro tempo: tranquilli, vi leviamo dai piedi questi stranieri, che intralciano il corso scolastico di studio dei vostri figli. Oltre che beceri, sono ignoranti e bugiardi. Non sanno di che cosa parlano e non hanno la più pallida idea di che cosa significhi apprendimento, istruzione, educazione alla socialità. I bambini stranieri – che poi tali non sono in larga parte, essendo nati e vissuti in Italia – aiutati opportunamente nel breve periodo di acquisizione del “fondamentali” all’interno della classe, si integrano con una facilità straordinaria, parlando la stessa lingua degli altri, nel nostro caso l’italiano, perché è questo quello che vogliono, far parte del gruppo classe, rivolgersi agli altri ed essere capiti. La freschezza di un bambino e la sua voglia di stare con gli altri – giocando o studiando – sono gli strumenti di una didattica efficace.

E invece che succede nelle stanze delle istituzioni? Che qualcuno proponga una mozione – cioè la metta in politica – suggerendo a maestri e maestre che sanno come stanno le cose, di ritornare alle vecchie classi differenziali.

Giusto come un tempo, quando chi non conosceva l’italiano, bene che andasse, era costretto a proseguire gli studi nell’avviamento, le tre classi successive alle primarie, parallele alla scuola media, per poi lasciare la scuola dopo avere conseguito il diploma di avvviamento professionale. L’educazione scolastica dei cittadini di serie B.

Le conseguenze di una oggettiva discriminazione, oggi sarebbero ben peggiori, perché alla diversità originaria (né sangue, né storia in comune), si aggiungerebbe la separazione linguistica, di fatto separazione logistica negli anni più difficili della vita di un fanciullo, quelli in cui si deve sentire “uguale” agli altri, tutelato, protetto e amato allo stesso modo.

In molte scuole italiane e ovunque, nelle nazioni che ospitano milioni di immigrati, il problema dell’integrazione scolastica, resa difficile dalla sconoscenza della lingua del paese ospitante, è stato risolto senza mozioni né leggi, con la didattica, la competenza, il buonsenso e il supporto di fondi utili per l’espletamento attività di supporto. Ma in Italia c’è chi un giorno sì ed uno no, deve mandare segnali al suo “popolo” devoto, per far sapere che il presidio non sarà mai abbandonato. E la scuola sarà liberata da neri, gialli, meticci, che fanno perdere tempo ai nostri bravi fanciulli. Invece che dare risorse alla scuola per aiutare l’integrazione attrezzandola, si chiede la separazione.

di Salvatore Parlagreco

17 ottobre 2008

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