Sin dalle epoche più antiche il vulcano etneo è stato causa di grandi distruzioni e calamità,ma nello stesso tempo ha rappresentato sempre una notevole e diversificata fonte di vita per le popolazioni sparse nei suoi versanti.
Se le distruzioni si possono catalogare essenzialmente sotto forma di eruzioni e di terremoti ad esse collegati e spesse volte susseguenti, i benefici erano compresi nell’arricchimento del suolo, nello sfruttamento degli ampi boschi (1)nella formazione di notevoli fonti idriche e soprattutto nella conservazione di un prodotto primario naturale qual è la neve. Oggi con un clima che tende ad essere nella nostra Isola sempre più caldo ed arido di anno in anno, (2) ci sembra più che difficile immaginare la neve come fonte di sussistenza di molta gente e soprattutto come prodotto di consumo. Ma se ci riferiamo ai secoli passati, dopo il Mille soprattutto il 700 e 1’800 ciò era un fatto di ordinaria amministrazione e di grande importanza in presenza di stagioni invernali molto più fredde di quelle di oggi e che comportavano annualmente copiose nevicate sui monti ed anche in riva al mare e a basse latitudini. Infatti nella Sicilia Orientale non era solo il massiccio etneo a permettere la conservazione della neve, ma anche i più meridionali Monti Iblei, cosa parecchio impensabile vista con gli occhi ed il clima di oggi. Sono le fonti archivistiche e soprattutto quelle notarili che ci documentano e ci informano largamente su questi fatti e fenomeni atmosferici.. Dopo le abbondanti nevicate invernali che ricoprivano interamente e ripetutamente il vulcano ed altri monti dell’Isola, cominciava il lavoro degli addetti alla conservazione della neve. Questi con larghe pale di legno ammucchiavano quanta più neve possibile in grotte laviche naturali, ripari ed anfratti (tacche) che la riparavano dai raggi del sole e ne permettevano una lunga ed a volte anche pluriennale conservazione. Per mantenere una temperatura costantemente bassa spesse volte la neve veniva ricoperta con erba secca, fogliame e felci, più raramente con terriccio vulcanico. A primavera inoltrata la neve ghiacciata veniva prima tagliata in grossi blocchi, chiusa in grossi sacchi di tela cerata e poi trasportata a valle per mezzo di lunghe file di asini e muli (le “redini”) guidate dai bordonari. Nel `700 erano famose le “redini” della Pedara, cittadina dell’ Etna la cui popolazione viveva direttamente ed indirettamente dei proventi del commercio della neve (3). In genere la neve veniva portata nelle città (Catania, Acireale) o nei centri etnei più popolati, nella marina di Mascali e nei porticcioli di Trezza e soprattutto Ognina, dove nel 1767 era collettore e magazziniere don Matteo Tosto e dove esistevano i depositi più attrezzati per l’ulteriore conservazione della neve prima dell’imbarco sulle navi. Infatti oltre alla quantità che si poteva consumare nei paesi pedemontani etnei e in molte città della val di Noto, la maggior parte della neve veniva spedita soprattutto a Malta, dove allietava le mense degli omonimi cavalieri sotto forma di sorbetti e gelati richiestissimi. Tuttavia il commercio della neve non era affatto libero poiché si trattava di un prodotto che proveniva dai terreni della Mensa Vescovile di Catania e quindi era di proprietà dei prelati catanesi, secondo quella che era stata la donazione del conte Ruggero dopo l’anno 1000. Tuttavia i vescovi catanesi non gestirono mai direttamente quel florido commercio che spesso preferirono dare in appalto a personalità varie. Nella seconda metà del secolo XVII sappiamo che l’appalto della neve era stato ceduto al cavaliere gerosolimitano di Pedara Don Diego Pappalardo, il quale ebbe nel 1694 una lunga ed articolata vicenda giudiziaria, legata allo sfruttamento della neve dell’Etna con don Andrea Riggio vescovo di Catania. In particolare D. Diego aveva stipulato un contratto per la raccolta ed il commercio della neve dell’Etna che doveva essere ammucchiata ed immagazzinata nelle grotte e poi e poi caricata e spedita in grossi blocchi ghiacciati principalmente nelle isole di Malta e Gozo. Per facilitare tale attività D. Diego aveva ingaggiato un congruo numero di operai e bordonari, quasi tutti della cittadina di Pedara ed aveva fatto costruire a sue spese, ai lati di un battuto sentiero che portava sulle alte pendici dell’Etna, una casupola che serviva come rifugio a tutta la manodopera occupata quando le condizioni del tempo peggioravano ed impedivano le fasi di raccolta o di trasporto della neve.
Per parecchi anni non accade nulla di particolare, ma agli inizi del 1694, quando ancora tutta la Sicilia Orientale e specialmente gran parte del territorio etneo, risentiva dei tremendi effetti della grave crisi sismica dell’anno precedente, un gruppo di uomini armati inviati dal vescovo Riggio, interruppero il lavoro degli operai di D. Diego e li costrinsero ad un precipitosa fuga. Questi ultimi impauriti andarono a riferire l’accaduto al cav. gerosolimitano di Pedara. Questi considerando prima di tutto il suo antagonista (4), presule di ferro e l’estrema precarietà conservativa di un prodotto come la neve, si rivolse subito al Tribunale del Regio Patrimonio di Palermo, competente per materia e territorio ed inviò un lungo e dettagliato memoriale nel quale rifaceva la storia del contratto stipulato negli anni passati con gli altri vescovi catanesi prima del Riggio, ossia il Bonadies ed il Carafa, trattava del pagamento dei diritti regi e delle varie tasse. Pregava altresì i giudici del Tribunale di esaminare al più presto la causa in atto poiché la neve era un prodotto particolare che non poteva certamente conservarsi a lungo.
La decisione dei giudici non si fece attendere molto. Il 12 gennaio 1694 il Tribunale del Regio Patrimonio accolse in pieno la linea difensiva proposta dal cav. gerosolimitano ed ingiunse al Riggio di rispettare le clausole del contratto della neve con il Pappalardo, di non far molestare più i suoi operai e, dulcis in fundo, di pagare una somma di 200 onze al Tribunale. La sentenza era stata tutta favorevole al Pappalardo, appartenente al potentissimo Ordine dei cavalieri di Malta ed era anche il risultato tangibile delle ampie divergenze che in quegli anni esistevano tra i presuli siciliani e le autorità regie. I vescovi, grazie all’Apostolica Legazia, cercavano di operare autonomamente dal potere regio ed anche dal papa e non tralasciavano occasione di mettersi spesso in urto con il primo. Ma il Pappalardo, da astuto operatore mercantile e anche da uomo di chiesa qual era, non approfittò della sentenza a lui favorevole e cercò di riannodare i legami con il vescovo, suo superiore (5). Questi da parte sua apprezzò la prudente condotta del cav. gerosolimitano ed iniziò con lui un articolato rapporto di amicizia e di stima reciproca che si troncò nel 1710 con la morte del Pappalardo (6). Sempre il secolo XVIII, per condizioni climatiche, sociali ed economiche, fece stabilire i vertici più alti del commercio della neve, saldamente in mano alla famiglia Pappalardo di Pedara con un ramo laterale molto attivo ad Acireale (7) e poi ai Di Giovanni – Alliata con la principessa Marianna. Dagli atti notarili coevi sappiamo di un contratto della durata di 6 anni stipulato tra D. Placido Pappalardo di Ludovico (8) di Acireale ma dimorante alla Pedara e il maltese fra Filippo Leone Donato per la fornitura di neve con partenza dal porto di Ognina. Detta neve sarebbe stata pagata a 3 tarì per carico, comprendente quest’ultimo 1 quintale e 10 rotoli di neve (circa 108 Kg in tutto) da caricare su una fregata che poteva imbarcarne sino a 1009 e un brigantino che ne poteva portare 900. Il contratto prevedeva pure che se i bordonari fossero stati utilizzati, ossia precettati, “per real servigio con ordine regio o viceregio, il Pappalardo non era tenuto alla consegna del prodotto. Nel contratto si prevedevano 90 onze annue per il fornitore (9). Sempre negli stessi decenni del ‘700 la Mensa Vescovile, tramite il suo Procuratore Generale D. Francesco Gioeni, aveva gabellato la fornitura della neve a D. Diego Andrea Pappalardo di Acireale, il quale aveva provveduto a subgabellarla a Pascale Andronico di San Giovanni La Punta per onze 3.18.10 annue; a Pietro Platania e a D. Lorenzo Pulvirenti rispettivamente Tesoriere e Consigliere dell’Università di Aci per onze 7 annue e a Vincenzo Lizzio di Valverde per 2 onze annue (10).
Nel secolo seguente, sempre le fonti notarili ci informano sul fatto che il commercio della neve etnea era stato dato agli Alliata di Villafranca, nobili eredi diretti dei principi Di Giovanni che nel 1641 avevano ricevuta 1’investitura dei tre centri di Pedara, Trecastagni e Viagrande. Infatti sappiamo che nel 1766 la principessa Marianna Di Giovanni Alliata aveva formato a Catania con Don Ignazio Rizzari, nobile cittadino ed il sacerdote Don Diego Andrea Pappalardo una società che aveva come scopo principale lo sfruttamento della neve dell’Etna concessa in affitto dalla Mensa Vescovile. Ma non era solo la neve dell’Etna a fare testo nei secoli passati. Infatti come detto già all’inizio, il clima invernale molto rigido permetteva nevicate in Sicilia a latitudini oggi impensate come potevano essere quelle dei Monti Iblei, altro serbatoio nivale che riforniva le città di tutta la fascia sud-orientale dell’Isola. La stessa principessa di cui sopra era proprietaria di estesi feudi nel centro ibleo di Buccheri, di cui portava pure il titolo nobiliare principesco acquisito nel secolo XVI da elementi della famiglia napoletana dei Morra. Sempre nei primi decenni della seconda metà del secolo XVIII aveva firmato una convenzione con don Antonio Catalano e don Pascale Platania, rispettivamente segreto e governatore di Buccheri, i quali erano stati incaricati di fornire neve ai centri di “Agosta”, Lentini e metà della città di Siracusa, (mentre 1’altra metà della città aretusea era stata affidata ai fratelli don Gaspare e don Enrico Cafici di “Palazzuolo”) . Un altro mercante, don Giuseppe Barbagallo, ebbe l’appalto per la città di Avola per il periodo di 8 anni e con la neve venduta a grana 3 per rotolo (798 g). Nel caso in cui fossero mancate le precipitazioni nevose negli Iblei, la neve sarebbe stata tratta dai depositi etnei di Paternò, Adernò e Catania. Riferendoci alle niviere di Buccheri sappiamo che già nel 1757 il dotto V. M. Amico nel suo “Lexicon siculum” poi tradotto dal Di Marzo nel 1855, aveva scritto che “i suoi colli (di Buccheri) sono coperti d’inverno di molta neve che perciò conservasi in gran copia nelle grotte, poi smerciata con non piccolo guadagno dagli abitanti nelle parti vicine”. Nel ‘700 le niviere di Buccheri, centro ibleo di oltre 3000 persone a m. 987 di altitudine, erano gestite dal principe direttamente oppure date in affitto con l’intera chiusa, ossia il recinto con muri a secco in cui era contenuta la niviera, chiamata dai locali “grotta”. Esistevano in quel di Buccheri tre tipi di niviere:
1) la niviera a cupola, costruzione parzialmente interrata con pianta quadrilatera e con una larga ed alta apertura laterale per il carico e il prelevamento. Le più antiche di queste strutture erano costruite con grosse pietre laviche, provenienti dalle cave del vicino monte Lauro, e messe in modo sovrapposto e degradante; 2) le grotte, completamente interrate con pareti interne in muratura con pianta quadrilatera, più raramente circolare e con due aperture di lato ed in alto che servivano per il rifornimento ed il prelevamento del prodotto nivale; 3) le niviere a volte, alte, profonde e con pareti in muratura e con più aperture a botole.
La misurazione delle niviere era fatta tramite strati e quintali: ossia ad ogni strato corrispondeva 1 quintale di neve: la più grande grotta, detta “Politi”, conteneva 365 strati e quindi 365 quintali di neve, la quale veniva gettatta dall’alto e poi sparpagliata e pigiata dai pestatori ed isolata con paglia. Contrariamente a quanto si potrebbe credere le niviere non sorsero solo per ristorare le persone in estate ma per tutti coloro che venivano mandati in quella località da medici o praticoni per fare le cure del freddo. Venivano a rifornirsi a Buccheri di neve abitanti di Siracusa, Ragusa, Caltagirone, Mineo, Ramacca ecc. La neve veniva prima tratta via a dorso di mulo dalle niviere e poi caricata su dei carri che portavano 5 carichi ( 2 balle per ogni carico) di 10 balle di 50 Kg ciascuna
1. Cfr. A. Patanè, Nota sul Bosco di Aci, in Memorie e Rendiconti dell’Accademia di Scienze Lettere e Belle Arti degli Zelanti e dei Dafnici, Acireale, 1996.
2. Stanno confermando purtroppo benissimo questo fatto i dati delle alte temperature delle ultime estati.
3. Cfr. G. PAPPALARDO, Pagine Storiche della Pedara, ILA Palina, Palermo, 1979-82.
4. Il Riggio fu uno di quei vescovi che considerava la finzione della Chiesa al di sopra di tutto e di tutti. Ciò lo portò ad urti frontali durissimi con le autorità cittadine e reali che alla fine riuscirono a mandarlo in esilio, salvo poi, a richiederne le spoglie mortali dopo la sua morte avvenuta in Roma nel 1717. Sulla attività del Riggio cfr. A. LONGHITANO, II vescovo Riggio, in SINAXYS, 1990.
5. In termini pratici D. Diego lasciò a Riggio tutta la neve contenuta in una grotta e gli abbonò più di 100 onze che il vescovo gli doveva per crediti passati. Cfr. Archivio della Curia Arcivescovile di Catania, Carpetta Pedara, Carte del XVII secolo.
6. Due anni più tardi, il 6 novembre 1696 il Pappalardo, che aveva completato la costruzione di una chiesetta dedicata alla SS. Vergine Annunziata nella sua estesa proprietà di Pisanello, invitò il Riggio che villeggiava nei suoi vicini possessi di Pisano, a celebravi la prima messa. Il Riggio accettò. Lo si apprende da un documento presente nel Fondo della Mensa Vescovile dell’Archivio della Curia Arcivescovile, Giuliana del Locho del Fleri, 1727.
7. Ad Acireale si era stabilito un nipote di D. Diego, Placido (1660 -?) sposatosi con una certa Remigia e diventato poi capitano di corazza della flotta siciliana. Fu grazie ad un suo nipote sempre di nome Placido che la linea dei Pappalardo di Pedara, in via di estinzione, poté continuare. Il secondo Placido, figlio di Ludovico, sposò nel 1746 una sua procugina, Domenica figlia di Fortunato, fratello del primo Placido. Così la discendenza dei Pappalardo, già estinta a Pedara continuò con il ramo acese sino alla prima metà del secolo XIX con Domenico Corvaia Papardo ( e non più Pappalardo).
8. Cfr. nota precedente.
9. Cfr. Archivio di Stato di Catania, Fondo notarile, 1vers., volume 5145, notaio Gregorio Indelicato di Aci, 1764; not. Antonino Consoli di Pedara, idem, vol. 4979.
10. Cfr. A.S.CT, Fondo Notarile, Notaio Vincenzo Gulli, 5 marzo 1755.