Leggete una carrellata di giudizi del Popolo Italiano
pensiero del ministro
Caro Direttore, sì, sono contro i dipendenti pubblici fannulloni e ho intenzione di continuare, non mollo. Ma non penso affatto che tutti i dipendenti pubblici siano fannulloni. Sono anzi convinto del contrario: moltissimi lavorano con competenza e senso del dovere. Senza di loro saremmo alla bancarotta amministrativa. Detesto le generalizzazioni, e sto lavorando proprio contro di esse; per questo ritengo opportuna e anzi doverosa una riflessione pubblica. Tre sono i punti che tengo sempre presenti, e che invito ciascuno a considerare. 1. Il prestigio sociale dei dipendenti pubblici si è molto ridotto, con grave danno per quelli che lavorano seriamente. Penso, ad esempio, ai maestri di un tempo o ai professori di oggi (quale sono anch’io). Se siamo meno considerati è perché valiamo di meno: fra noi ci sono certo molte eccellenze, ma moltissimi sono selezionati male o niente affatto, non si misurano con la frontiera della ricerca e della didattica, sono appiattiti in una mediocrità culturale ed economica in cui «tutti i gatti sono grigi». Il danno lo subiscono gli studenti, protagonisti dimenticati e marginalizzati del sistema formativo; ma poi lo subiscono la cultura, la ricerca, le imprese, le stesse amministrazioni che non possono avvalersi di personale e dirigenti di qualità. 2. La produttività degli uffici pubblici non è misurata e meno che mai controllata regolarmente e resa trasparente ai cittadini. Chi lavora lo fa per senso del dovere, perché è onesto e ha amor proprio; ma di chi non lavora nessuno si cura. A chi lavora bene manca del tutto il sostegno dell’apprezzamento dei cittadini per il buon lavoro svolto. Le assenze dal lavoro per malattia o altre cause sono molto più numerose che nel privato. Non è che lo Stato faccia male alla salute, ma è che in quegli uffici c’è minore controllo, maggiore lassismo. Manca la responsabilità nei confronti di clienti e contribuenti; mancano i responsabili, i capi il cui successo, anche economico, dipenda dai risultati. E il datore di lavoro, il policy maker è troppo distratto dalla sua personale gestione del potere. 3. L’opacità del settore pubblico è preoccupante. Si fa di tutto per non far capire chi fa cosa, quando e per quanti soldi. Sono bastate le poche operazioni trasparenza da noi lanciate (mettere on-line stipendi e curricula dei dirigenti, permessi sindacali, consulenze, assenteismo) per fare scandalo. Se ne è parlato per giorni, ma si tratta di cose tutto sommato banali, che dovrebbero essere un normalissimo costume democratico. Su questi tre punti ho impostato la mia azione di riforma: a) restituire prestigio a chi serve le amministrazioni centrali e locali; b) valutare la produttività in modo da premiare, con soldi e carriera, chi lavora più e meglio; c) rendere lo Stato una casa di vetro, dentro la quale il cittadino possa sempre guardare con fiducia e soddisfazione; d) dare voce non solo ai cittadini-elettori, ma anche ai cittadini-consumatori di beni e servizi pubblici. Per non pagare due volte: la prima con le tasse, la seconda per comprarsi beni e servizi che lo Stato non ti dà o ti dà male. E parliamo pure di soldi. Si sente spesso ripetere che i dipendenti pubblici sono pagati poco in cambio di poco lavoro. È falso. Ognuno dovrebbe guadagnare in ragione del proprio contributo alla crescita della ricchezza collettiva. I lavoratori pubblici, negli ultimi otto anni, mentre il Paese si incagliava in una fase di stagnazione dei redditi e del prodotto, hanno visto crescere i loro stipendi più dell’inflazione e ben più dei privati. E l’hanno fatto senza correre alcun rischio occupazionale, avendo in tasca una sicurezza di lavoro e di carriera che nel privato nessuno possiede. Non intendiamo togliere niente a nessuno, ma impostare le cose in modo che sia premiato l’impegno e non la furbizia, il lavoro e non l’arte di scansarlo, il merito e non il privilegio. Questo non per generico moralismo (benché la moralità sia un bene prezioso, anche per il buon funzionamento dell’economia e della società), ma perché non possiamo più permetterci un’amministrazione pubblica costosa e inefficiente, freno e non motore della crescita. Oggi le frontiere sono aperte, i mercati sono globali, e l’Italia non ha più l’arma della svalutazione competitiva per mettere sotto al tappeto la polvere delle sue arretratezze strutturali: dobbiamo quindi rimediare, riformare, rendere il Paese più efficiente e moderno— ovviamente anche nel pubblico impiego. Abbiamo il dovere di farlo, perché la corsa della nostra economia non sia appesantita da inutile zavorra e perché di uno Stato che funziona hanno bisogno i più deboli, gli svantaggiati, certo non i privilegiati. Può darsi che qualche nostra durezza appaia impopolare, ma invito ciascuno a considerare quanto anti popolare è un sistema in cui l’inefficienza dello Stato condanna gli ultimi a restare tali. Cattiva politica, cattivo sindacato hanno sin qui prodotto mostri. Per questo ho bisogno della buona politica (quella del mio amico Ichino per esempio), e di un sindacato protagonista del cambiamento. Vedo, invece, che qualcuno minaccia proteste, «autunni caldi»: siamo un Paese libero, ci mancherebbe. Ma vorrei capire per cosa s’intende protestare: per la conservazione dell’esistente? Per preservare il «tesoretto» del privilegio, della sicurezza e dell’irresponsabilità? Così si danneggiano appunto gli interessi di chi lavora e di chi nel pubblico impiego vuole entrarci per fare e non per approfittare; e, prima ancora, gli interessi di chi attende un servizio che non può altrimenti comprare. E ancora. Non ci sono abbastanza soldi per il rinnovo del contratto? Facciamo bene i conti, tenendo presente, però, una volta per tutte, soprattutto produttività e qualità. Perché premiare chi non lo merita? E poi, con questi chiari di luna congiunturale, il Paese capirebbe uno sciopero generale nel pubblico impiego, quando nel settore privato a rischio non è il rinnovo del contratto, quanto lo stesso posto di lavoro? Certo il decreto Tremonti-Brunetta ha tagliato con durezza un pezzo di cattiva spesa corrente. Che altro c’era da fare? Chi strilla tanto contro ha il dovere di dire cosa avrebbe fatto al posto del governo per controllare e stabilizzare la finanza pubblica in un triennio di crescita quasi zero, con deficit tendenziale crescente, fuori dagli impegni europei. Poi, per carità, di errori ne commettiamo tutti. Ma non sono affatto disposto a rinunciare all’impegno, rigoroso e costante, per restituire forza, dignità ed efficacia all’amministrazione pubblica e a chi ci lavora. Per dare più sicurezza, più sanità, più scuola, più cultura, migliore burocrazia, più giustizia. Da una sola parte. Dalla parte dei cittadini, dalla parte dei lavoratori. ministro per la Pubblica amministrazione Renato Brunetta 26 luglio 2008 da Corriere.it
Nell’anno 2008 un professore universitario con una brillante carriera, candidato al premio Nobel per l’economia … divenne ministro del governo Berlusconi ter…ecc. …
Argomento: Brunetta e i libri di storia
Onorevole, lei ha due rari privilegi:
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